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Chi guadagna e chi perde dal caos nelle rotte indo-mediterranee

India e Cina, Iran, Arabia Saudita, Emirati, Egitto ed Etiopia, Qatar e Sudafrica e Stati Uniti: sono tanti gli attori coinvolti nella crisi dell’Indo Mediterraneo, con vari interessi e problematiche. Rapida carrellata lungo le rotte che collegano Europa e Asia

Secondo una fonte diplomatica europea informata sui fatti, non è vero che gli Houthi abbiano messo nel mirino dei loro razzi terra-mare una nave da guerra americana che transitava lungo le acque del Mar Rosso meridionale. La (non) notizia era stata fatta circolare da canali di propaganda collegabili all’organizzazione yemenita che da settimane sta disarticolando la sicurezza marittima dell’Indo Mediterraneo, dove nei giorni scorsi c’è stato il primo scontro a fuoco. Serviva a dimostrare che le capacità di deterrenza statunitensi erano limitate, sebbene è la deterrenza statunitense per ora a mantenere il disequilibrio in corso su un livello di controllo dell’escalation.

Al di là dell’infowar, gli Houthi hanno attaccato diverse navi commerciali che navigavano lungo le rotte di collegamento tra Europa e Asia, portando nelle ultime due settimane svariate compagnie mercantili internazionali a dover deviare a sud e utilizzare nuovamente il passaggio per il Capo di Buona Speranza come via per collegare i due continenti. C’è già chi cerca di capitalizzare, c’è chi soffre l’alterazione degli equilibri, chi ci prova su un tema che è al centro delle attenzioni delle cancelliere mondiali – con la stabilità delle interconnessioni tra Mediterraneo allargato e Indo Pacifico che potrebbe essere tra gli argomenti affrontati anche nella prossima riunione ministeriale Esteri del G7 che l’Italia ospiterà a Capri.

La Russia per esempio, che non riesca ad aprirsi spazi nel corridoio eurasiatico africano, insiste sul valore della rotta artica da tempo, perché ne ha controllo geo-strategico e scommette che lo scioglimento dei ghiacci legato al riscaldamento globale renderà quella via più accessibile (se diventerà più battuta sarà un’arma per Mosca e una leva per riqualificarsi dopo il dramma ucraino). Il Sudafrica ha fiutato la nuova centralità di Buona Speranza (da decenni relegato a poco più di una meta turistica, senza più lo storico valore geopolitico causa Suez) e ha sfruttato la situazione per darsi un tono internazionale: osservata speciale del Global South come membro fondatore dei Brics (il gruppo che, nonostante il dietrofront argentino, continua a espandersi), Johannesburg ha approfittato della situazione per attrarre altri riflettori della discussione pubblica globale denunciando Israele davanti alla Corte penale internazionale.

L’Iran (che a proposito inizia il 2024 come nuovo membro del sistema Brics+) ha inviato una fregata degli anni Sessanta, la Alborz, verso Bab el Mandeb per dimostrare di esserci, di aver cura della stabilità della regione sfruttando un dossier a ricaduta ben più ampia, dove c’è possibilità di misurarsi con uno scenario globale e di passare da potenza attiva – anche se il caos è stato innescato da armi che i Pasdaran hanno fornito agli Houthi e che gli yemeniti non stentano a usare seguendo anch’essi una proprio agenda interna e una internazionale in comune con i protettori di Teheran. L’Etiopia (altra neo promossa nei Brics) ha approfittato anch’essa della situazione e definito l’accordo con il Somaliland per garantirsi l’accesso al mare, esattamente in quel Corno d’Africa reso non frequentabile in queste settimane.

L’Egitto (un altro nuovo membro dei Brics) teme non tanto il calo attuale del 50% del traffico di container che passa per Suez, in quanto sa che si tratta di una situazione che nel breve periodo (fossero anche alcuni mesi) sarà tamponata, ma percepisce che quanto sta accadendo accelererà ulteriormente i processi di costruzione di vie alternative – come Imec, per quanto possa essere complicato – e per Il Cairo significa perdere in futuro un’aliquota dei nove miliardi di dollari (9,4 per l’esattezza, stando al record del 2023) incassati ogni anno dai diritti di transito. Riad e Abu Dhabi osservano (anch’essi nuovi membri dei Brics da quest’anno): la destabilizzazione di quelle rotte è un problema complesso per entrambi, impelagati nella guerra civile in Yemen, nel controllo della logistica marittima regionale, nel tentativo di riapertura diplomatica con l’Iran e nella complicatissima normalizzazione con Israele.

I due fulcri del Golfo Persico cercano ancora di comprendere quale spazio sfruttare dalla crisi di Gaza, e come gestirla davanti alle proprie collettività, mentre il Qatar acquisisce centralità arrivando al punto di svolta per una nuova tregua. Intanto, Trucknet Enterprise, una società di trasporti israeliana, ha stretto accordi questo mese per facilitare una rotta commerciale via terra per il trasferimento di merci dal Golfo Persico attraverso l’Arabia Saudita e la Giordania a Israele bypassando il Mar Rosso e le sue instabilità. L’India e la Cina infine sono differentemente coinvolte: New Delhi partecipa alle attività di sicurezza marittima, mentre Pechino resta dis-ingaggiata, e nel frattempo i cinesi rafforzano da un lato la presenza nell’Indiano (con le nuove infrastrutture in Myanmar) e dall’altro prendono un colpo per il divieto di attacco deciso dallo Sri Lanka.

In questo quadro deve muoversi la potenza numero-uno, gli Stati Uniti che combattono tra la necessità di non sembrare debole (l’amministrazione Biden è accusata di essere troppo morbida nella reazione agli Houthi, ma sarebbe accusata da altri dovesse avviare bombardamenti mirati contro gli yemeniti), evitare l’escalation (che potrebbe prodursi con attacchi diretti, per questo sia gli alleati regionali che gli europei hanno perplessità sull’azione cinetica), salvaguardare rotte con tutti gli interlocutori civili-economici-politici che contano sul loro impegno (anche al posto di chi, come la Russia e la Cina, evita coinvolgimenti e aspettano guadagni sia strategico-narrativi, accusando l’Occidente di essere la ragione della crisi, sia operativi). Intanto, la Uss Gerald Ford lascerà il Mediterraneo orientale, dove era stata dispiegata dopo l’assalto brutale di Hamas del 7 ottobre. 


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