Intercettare il sentimento popolare di una nazione che aveva smarrito completamente l’amore per la politica, anche a seguito di Mani Pulite. L’intuizione del rapporto diretto con gli elettori e l’eredità della rivoluzione liberale. Conversazione con l’ex ministro Giuliano Urbani, tra i fondatori di Forza Italia
Il cavaliere che fece l’impresa non c’è più. Restano i suoi sodali di sogno e valori. Quelli che credettero davvero, in quel lontano 26 gennaio 1994, di poter realizzare la rivoluzione liberale. Per alcuni un sogno infranto, per altri “un impegno permanente, che sopravvive anche a colui che lanciò l’idea e che fondò Forza Italia”. La voce che ripercorre gli attimi convulsi “ed entusiasmanti” di quell’inizio anno di trent’anni fa, è Giuliano Urbani. Ex ministro della Cultura, ma soprattutto componente del nucleo fondativo di Forza Italia. Silvio Berlusconi “mi chiamò – racconta a Formiche l’ex ministro – e mi volle accanto a lui nell’avventura. Fui stupito, fu una piacevole sorpresa. Accettai subito”.
È fin troppo facile sostenere che Forza Italia cambiò il volto alla politica italiana. Fu in effetti così?
La svolta ci fu nel modo di concepire la politica, anche in funzione dell’iniziativa di un singolo – Silvio Berlusconi – che intuì la necessità di qualcosa di nuovo che interpretasse il sentimento popolare.
Il Paese all’epoca era scosso dal terremoto giudiziario provocato dall’inchiesta Mani Pulite che, di fatto, spazzò via l’intero sistema politico sul quale si era retta la Prima Repubblica.
Sì, ma i contraccolpi sul pentapartito che ebbe Mani Pulite è solo uno dei tanti aspetti, il più clamoroso ed evidente, che determinarono la forte disaffezione degli italiani rispetto alla politica. Per cui Berlusconi cercò di dare voce a tutti coloro che in qualche modo non avevano più riferimenti e si erano stancati del “vecchio” sistema politico.
In che cosa Forza Italia si distinse come esperienza rispetto al pentapartito?
Innanzitutto nella dinamica del rapporto fra partito ed elettori. Berlusconi fece un appello diretto agli italiani, rivolgendosi loro direttamente. Una chiave sia comunicativa che politica del tutto innovativa, che inaugurò un metodo di fare politica all’insegna della disintermediazione. E l’impatto fu straordinario, si sprigionò un’energia davvero potente.
A cosa fa riferimento?
Con questo appello diretto è come se allora Berlusconi fosse riuscito a liberare gli italiani da “un tappo” e da una disaffezione, facendo tornare loro l’entusiasmo per la politica e per un impegno diretto. Diede loro un’altra prospettiva, facendosi interprete di un sentimento nuovo. O per lo meno tenuto bloccato, nascosto.
La rivoluzione liberale, però, è stato per tanti un sogno infranto. O per lo meno non compiuto fino alla fine. Cosa resta di quel progetto?
È ancora un’aspirazione e un sogno che va perseguito. Si tratta solo di trovare gli interpreti giusti che possano attuare la rivoluzione liberale di cui questo Paese ha bisogno.
E una possibile interprete potrebbe essere la premier Giorgia Meloni?
Penso di sì. Lei è stata una bella sorpresa sotto tanti punti di vista, spero che continui a mantenere questa linea.
Cosa la spinse ad aderire al progetto di Berlusconi e, soprattutto, che ruolo ebbe all’inizio della storia di Forza Italia?
Inizialmente venni incaricato dal Cavaliere di “saggiare” il sentimento popolare e capire che umori circolassero tra le persone. È in quel momento che iniziammo a utilizzare i sondaggi come strumento non solo per capire l’orientamento di voto, ma anche per orientarci sul comune sentire. Su cosa volesse la gente. Per certi versi sono stato io a spingere Berlusconi verso un certo tipo di impegno, essendo stato in prima persona a contatto con le persone.
E il nome?
No, quello fu il frutto di una sua intuizione geniale. Figlia probabilmente anche del suo essere un uomo dal grande talento comunicativo e che aveva una grande cultura (oltre che un’esperienza imprenditoriale formidabile) sul mondo dei media.
Chi, ora, raccoglie il testimone di Silvio Berlusconi?
Il testimone di Silvio Berlusconi non ha un erede unico. È un compito diffuso tra tutti coloro che si stanno impegnando nel partito, a partire da chi ricopre incarichi di governo. Il risultato più straordinario del cavaliere è stato proprio quello di aver creato un partito in grado di sopravvivere al fondatore.