Secondo l’esperto di sicurezza la trasformazione del panorama internazionale riflette un graduale declino dell’unipolarismo, caratterizzato da una crescente frammentazione e da una maggiore competizione per risorse e territori. Ai conflitti armati che proliferano in questo contesto, si aggiungono alcune sfide trasversali per la sicurezza globale
Le dinamiche fondanti che caratterizzano lo sviluppo del panorama securitario internazionale negli ultimi anni sono legate ad un sistema molto più instabile rispetto al passato. Ma quali sono le cause, più o meno profonde, di questa trasformazione? Formiche.net ha chiesto spiegazioni ad una voce molto autorevole, quella di Antonio Missiroli, ex-direttore dell’European Union Institute of Security Studies e già segretario generale aggiunto della Nato per le emerging security challenges.
Quali sono le dinamiche fondanti che caratterizzano lo sviluppo del panorama securitario internazionale negli ultimi anni?
Credo che si possa dire che quello che è cambiato in rapporto agli scorsi decenni è il contesto: dopo la fine della guerra fredda potevamo osservare un contesto “unipolare”, in cui l’espansione dell’Occidente, così come dei suoi principi e dei suoi valori (democratizzazione, liberalizzazione e globalizzazione), sembravano essere gli aspetti caratterizzanti del sistema internazionale, così come delle diverse operazioni militari out of area che sono state condotte a partire dagli anni ’90. Ma negli ultimi dieci anni abbiamo osservato un graduale declino di questa tendenza, accompagnata da una crescente frammentazione del sistema internazionale, degli allineamenti e delle coalizioni. Uno degli effetti della globalizzazione è stata la crescente interdipendenza tra diversi Paesi e parti del mondo. Questa interdipendenza ha promosso in una prima fase una maggiore cooperazione internazionale, a livello sia regionale che multilaterale; ma oggi ci rendiamo conto che essa ha portato anche ad una maggiore competizione per le risorse, per il controllo del territorio, per l’influenza mentre, rispetto al periodo pre-1989, la competizione ideologica è meno forte. Oggi assistiamo al crescere di coalizioni di interesse a geometria variabile, basate su interessi convergenti su questioni specifiche ma non necessariamente su valori comuni condivisi: un mondo di alleanze a la carte, per così dire. Per questo credo che le analogie con la guerra fredda, o la categorizzazione del conflitto come tra Nord e Sud o anche tra Est ed Ovest lascino un poco il tempo che trovano. Nessuna di queste categorie o contrapposizioni riesce a cogliere pienamente la fluidità e la complessità di ciò a cui assistiamo oggi.
Una trasformazione con delle conseguenze…
Certamente. Come ad esempio quella dell’aumento dei conflitti armati. Ancora una decina di anni fa, chi misurava i conflitti nel mondo rilevava una diminuzione nelle guerre e negli scontri armati rispetto al ventesimo secolo; oggi un recente rapporto dell’International Institute of Strategic Studies ci parla di oltre 180 conflitti in corso nel mondo, e tutti conflitti che hanno un impatto sempre più forte sulla popolazione civile. Quindi è come se questa accresciuta competizione avesse portato ad un maggior impiego dell’uso della forza, o della minaccia del suo uso, nella risoluzione di controversie e conflitti esistenti: un aspetto fondamentale della sicurezza internazionale.
Dunque è il venir meno dell’unipolarismo politico ed ideologico ad aver causato quest’impennata nei conflitti?
Rispetto a pochi decenni fa l’idea, presentata dagli occidentali, dell’universalità dei loro valori è sempre meno accettata e condivisa a livello globale. Molti attori del sistema internazionale, dalla Russia e dalla Cina fino ai Paesi emergenti dell’Africa e dell’Asia, ma anche dell’America Latina (storicamente più vicini all’Occidente) non li considerano come propri, o comunque non vi si identificano del tutto – e qui c’è una differenza importante rispetto al passato. Ma ripeto, oggi non sono le differenze sui valori a dare forma al sistema internazionale, sono gli interessi. Basti pensare all’emergere del fenomeno dei Paesi “multi-allineati”, come ad esempio i Paesi arabi del Golfo o l’India, che per alcuni interessi sono più vicini ai Paesi occidentali, ma per altri non lo sono affatto, e si sentono liberi di formare coalizioni ad hoc su determinati aspetti con altri attori– a riprova della frammentazione e della fluidità della situazione odierna. E l’uso della forza è un effetto collaterale di questa situazione: la seconda invasione russa dell’Ucraina ha in qualche modo rotto un tabù, e il fatto che non sia stato finora possibile né fermarla né punirla in modo adeguato pesa. Trent’anni fa l’intera comunità internazionale, Mosca e Pechino comprese, si coalizzò per punire l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Oggi invece, accanto alla guerra in Ucraina, abbiamo le crisi nel Sahel, le guerre civili in corso in Sudan e in Myanamar, perfino le minacce di invasione della Guyana da parte del Venezuela. Alcuni anni fa queste cose sarebbero state impensabili, ma oggi rischiano di diventare il new normal sullo scacchiere internazionale contemporaneo.
Possiamo quindi individuare nell’uso della forza uno strumento del confronto tra il “blocco occidentale” e il fronte “revisionista”?
I conflitti di cui parliamo sono molto diversi tra loro: alcuni sono vecchi conflitti irrisolti, di cui il Medio Oriente è l’esempio più lampante; altri, come nel caso del Sahel, sono causati dal collasso dell’autorità statuale; altri sono legati a vecchie dispute; altri ancora sono tentativi di sovvertire un governo che non può essere deposto attraverso dinamiche democratiche, come in Myanmar e Sudan. È quindi difficile trovare una fonte unica. Ma c’è il rischio che questi conflitti, per quanto così diversi tra di loro, possano alimentarsi a vicenda e perfino sovrapporsi: si pensi, ad esempio, al ruolo dell’Iran e della Corea del Nord nel conflitto in Ucraina. In questo contesto si è parlato anche di conflitto Nord-Sud, non solo di conflitto Est-Ovest, oppure di conflitto tra Occidente globale e Sud globale. Personalmente credo che questa rappresentazione lasci a desiderare, perché nel Sud globale si tende ad includere anche Cina e Russia, che non solo sono grandi potenze storiche, ma sono anche parte dell’emisfero Nord, e hanno pure approcci revisionistici piuttosto distinti, e ricorrono a strumenti diversi. Trovare una singola categoria che abbracci tutto questo è alquanto difficile.
Accanto all’acuirsi di questa frammentazione globale, c’è anche un indebolimento della cooperazione internazionale. Non crede?
In questa situazione, la governance globale risulta molto più difficile da gestire. Il multilateralismo ha conosciuto la sua epoca d’oro al termine della guerra fredda: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non ha mai approvato così tante risoluzioni come negli anni ’90. Oggi questa convergenza globale è venuta meno. Lo si vede anche su dossier non strettamente legati alla sicurezza come il cambiamento climatico: l’ultimo Cop svoltosi a Dubai non è stato certo un successo, e anche il prossimo in Azerbaigian rischia di essere problematico. Questo perché c’è una resistenza da parte di alcuni Paesi, sulla base di interessi specifici più o meno legittimi, di breve e/o lungo termine, a seguire la leadership occidentale.
Crede che questo sia collegato al venir meno degli Stati Uniti come potenza “responsabile” dell’ordine unipolare a cui si riferiva?
Il caso americano è molto peculiare. È caratterizzato dal declino relativo dell’influenza di Washington nel mondo, come si può vedere dal fatto che tradizionali alleati degli Usa – come i Paesi del Golfo o la stessa Turchia – giochino oramai in proprio su diversi scacchieri internazionali; allo stesso tempo però gli Stati Uniti, sul piano dell’interesse nazionale, non sono in una situazione di vera debolezza, né in termini economici né tantomeno strategici: le capacità militari di Washington sono ancora uniche a livello globale, al momento neanche la Cina può lontanamente immaginare di competere alla pari. E in tutto questo l’Europa si trova un po’ stritolata.
Ci spieghi meglio…
Quando parliamo di “Europa” parliamo di tante cose diverse allo stesso tempo. L’Europa è una comunità di ventisette Paesi diversi, con ventisette governi nazionali, ventisette calendari politici distinti e ventisette contesti interni diversi. Già questo rappresenta di per sé una sfida, e lo è diventato ancora di più negli ultimi anni con l’aumento delle disomogeneità interne ad un’Unione sempre più larga e di fronte al crescere di forze populiste che contestano l’assetto dell’Unione come è oggi. Accanto a questa Europa c’è però anche quella delle istituzioni comuni, sia nel contesto intergovernativo che in quello comunitario, che avrebbe la possibilità di creare più sinergie tra queste ventisette realtà e di fare “massa critica” sulla scena internazionale. Si tratta di un contesto giuridico-istituzionale più complesso di quanto percepito dai cittadini, in cui l’Unione in quanto tale ha determinati poteri in alcuni settori ma ne ha pochissimi in altri, diversamente dai poteri statuali “classici”. Soffre quindi di non essere una sorta di Stato Federale, ma stenta sempre più a diventarlo. E tuttavia, riesce comunque ad avere una certa influenza nelle relazioni internazionali perché, per quanto in declino relativo, l’economia dell’Ue rimane la terza economia nel mondo dopo Stati Uniti e Cina.
Quale futuro attende dunque l’Europa?
Il futuro dell’Europa dipende molto da cosa succederà l’anno prossimo, quando si terranno elezioni importanti in gran parte del mondo. Circa la metà degli adulti del pianeta andrà alle urne nel 2024, con oltre due miliardi di votanti stimati: da Taiwan, già in gennaio, a Russia, Iran, India e Sudafrica in primavera, fino alle elezioni europee di giugno, quelle britanniche e, soprattutto, quelle americane a novembre. Tutte queste elezioni avranno un impatto significativo per l’Unione Europea, che dipende molto dal resto del mondo in termini di esportazioni, investimenti e materie prime, ma specialmente le proprie, dopo le quali si vedrà se avrà la forza e l’unità sufficienti ad operare in questo contesto internazionale molto più complesso, e in parte anche più ostile, rispetto a quello in cui l’Unione era stata creata trent’anni fa.
Un ordine internazionale caratterizzato da una profonda divisione. Ma ci sono, secondo lei, delle minacce trasversali che riguardano tutti gli attori, a prescindere dal loro collocamento?
Credo che la frammentazione esposta poco sopra, così come l’indebolimento dei regimi multilaterali (inclusi i controlli sugli armamenti strategici), rappresentino una minaccia per tutti. Si pensi al recente blocco del traffico commerciale nello stretto di Bab el-Mandeb da parte dei ribelli Houthi: nel caso della pirateria al largo della Somalia, anni fa, l’intera comunità internazionale si mobilitò per combatterla, mentre oggi si stanno muovendo soltanto gli Stati Uniti, nonostante la minaccia all’economia internazionale sull’asse tra Suez e Shanghai riguarda tutti. E lo è anche questo ritorno in auge dell’uso della forza, soprattutto in assenza di meccanismi in grado di porre un argine a questi fenomeni. Infine, le nuove tecnologie che si stanno sviluppando quasi del tutto al di fuori del controllo degli Stati – contrariamente a quanto accaduto nei secoli precedenti – partendo dai mercati globali ed estendendosi poi anche al settore della sicurezza hanno effetti destabilizzanti e a volte perfino dirompenti sia sulle società che sui governi e le stesse relazioni internazionali. La regolazione di questi processi è difficile e molto frammentata, anche alla luce del ruolo dei giganti tecnologici che operano ormai di fatto come potenze globali, e la rapidità con cui vengono sviluppate queste nuove tecnologie rende quasi velleitario qualsiasi tentativo di disciplinarle a livello transnazionale. L’impatto di queste tecnologie sul mondo interdipendente che abbiamo appena descritto – il loro “lato oscuro”, per così dire – rappresenta un rischio che non possiamo ignorare.