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Mao docet? Il futuro di Taiwan oltre le elezioni visto da Fardella

Davanti a una taiwanizzazione spinta tra la popolazione dell’isola, Pechino potrebbe essere portata a raggiungere l’unificazione con la forza. A meno che non prediliga la gestione dei propri problemi interni lasciando spazio per un dialogo a lunghissimo termine

Flashback. Nel luglio del 1958 truppe americane e inglesi intervennero in Libano e Iraq per sedare delle rivolte contro regimi amici. Qualche giorno dopo Mao Zedong decise di iniziare a bombardare le isolette più prossime alla costa cinese, controllate dal regime nazionalista a Taiwan, per “supportare la lotta antimperialista degli arabi”. Mao riteneva che il bombardamento di Taiwan avrebbe sorpreso gli imperialisti e rafforzato il supporto degli arabi, africani e asiatici a favore di Pechino. Sebbene la crescita della tensione internazionale non era certamente benvenuta da parte di Mao, come ha scritto nelle sue memorie Wu Lengxi (l’allora capo dell’agenzia di stampo a Xinhua), Mao ritenne che questa tensione si poteva utilizzare in modo efficace per rafforzare il fronte antimperialista e convincere i popoli a lottare contro gli americani.

Wu scrive che Mao citò una storia della tradizione classica cinese che raccontava di come un uomo per sconfiggere la sua paura dei fantasmi, quando ne incontrò uno si colorò il volto di inchiostro nero così da spaventarlo e cacciarlo via. I bombardamenti cinesi nello Stretto, sebbene principalmente mirati alle navi nazionaliste, in qualche caso sfiorarono quelle americane che dovettero invertire la rotta. Il fantasma era stato sconfitto, disse Mao: “Entrambi ci siamo spinti sulla soglia del conflitto, ma nessuno ha superato il limite e nonostante tutto abbiamo continuato a parlarci” (riferendosi ai dialoghi di Varsavia tra diplomatici cinesi e americani).

Fast forward. Se nella crisi Ucraina la Cina per massimizzare i suoi interessi e il suo appeal a livello internazionale — specie tra i Paesi del cosiddetto Global South — ha assunto una posizione di neutralità pro-russa, nella crisi di Gaza ha assunto una posizione simile (neutralità filo- palestinese) ma con un maggiore orientamento a sinistra, ossia a supporto delle posizioni palestinesi. Nel caso ucraino l’opinione pubblica internazionale, soprattutto nel Sud del mondo, era per lo più indifferente nei confronti dell’invasione russa e dunque l’enfasi sul neutralismo consentiva a Pechino di ergersi a rappresentante di questa zona intermedia, massimizzare il suo standing internazionale e presentarsi come una forza razionale, pacifica, e in taluni casi anche eventuale mediatore tra le parti. Nel caso di Gaza le manifestazioni filo-palestinesi nel mondo — e soprattutto nei campus americani — hanno rafforzato l’interesse cinese a promuovere un fronte unito anti-americano con il mondo islamico attraverso un’enfatizzazione della componente filo- palestinese anche al costo di una severa distorsione dei rapporti, un tempo ottimi, con Israele.

Ma come è legato tutto questo alla situazione di Taiwan? È evidente che lo status quo che ha mantenuto in equilibrio lo stretto di Taiwan per decenni è in fase di trasformazione. Se fino a poco tempo fa la maggior parte dei taiwanesi si sentiva cinese motivando il principio di “una sola Cina” — ossia che esisteva una sola Cina la cui rappresentanza politica era contesa tra la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Cina a Taipei — oggi la situazione è cambiata. Di fatto Taiwan sta sviluppando progressivamente un’identità distinta dalle sue origini cinesi, una trasformazione che inevitabilmente si riflette sul piano politico interno — come in parte dimostra l’ennesima vittoria del Partito democratico progresso alle elezioni di sabato 13 gennaio. Questo avrà necessariamente ripercussioni anche sul piano della politica internazionale.

Se le nuove generazioni dell’isola si sentiranno sempre più taiwanesi e meno cinesi, svanirà il supporto popolare all’opzione per tanto tempo coltivata da Pechino di una transizione pacifica verso una riunificazione gestita attraverso il criterio di “un Paese, due sistemi” (Taiwan come entità politica autonoma all’interno della Repubblica Popolare). Ma probabilmente Xi Jinping questo lo ha già accettato da tempo, come forse ha dimostrato la risolutezza con cui ha gestito la crisi di Hong Kong, il laboratorio del modello “un Paese, due sistemi” il cui successo in un primo tempo sarebbe servito a persuadere il popolo taiwanese del valore di questa opzione.

Che fare dunque? È chiaro che Xi abbia legato la sua eredità storica alla riunificazione di Taiwan. È altrettanto chiaro che più passa il tempo più aumenta la deriva taiwanese dell’isola e svanisce la possibilità di una “riunificazione pacifica”. Torna dunque in auge l’ipotesi coercitiva, di cui l’invasione militare dell’isola rappresenterebbe l’extrema ratio.

Il neo-eletto presidente taiwanese Lai Ching-te parla della vittoria della democrazia contro l’autoritarismo e le sue interferenze nella politica interna, dell’allineamento dell’isola con le forze democratiche del mondo, ma dice che vorrà impostare i rapporti con Pechino sul “dialogo”. Chiaramente il dialogo necessita di tempo e il tempo in questa fase giova a favore di coloro che sostengono questa taiwanizzazione dell’isola come naturale evoluzione e soluzione della questione.

Ma a Pechino il calcolo dei tempi ha una ratio diversa probabilmente. Il tentativo di consolidare un fronte anti-americano, come dimostrano le sue posizioni sul fronte ucraino e mediorientale potrebbe essere un segnale in tal senso. Se vengono meno le condizioni per una riunificazione pacifica secondo il principio di “una sola Cina” allora bisogna preparare il terreno per una soluzione maggiormente coercitiva che non conduca ad un pericoloso isolamento del paese (Putin docet). Se così fosse il problema purtroppo rischierebbe di non essere più legato al se ci sarà un’opzione di questo tipo ma al quando e al come essa si manifesterà.

E se i tempi del quando sembrano inversamente proporzionali alle mutazioni identitarie dell’isola, il tema del come resta ancora un enigma. L’esperienza ucraina ha probabilmente reso l’idea di un blitzkrieg nell’isola sempre meno realistica (qualora lo fosse mai stata). Una manovra coercitiva ad ampio spettro e di crescente intensità sarebbe più probabile. L’obiettivo non è ricordare ai taiwanesi delle loro origini cinesi per riportarli sulla “retta via” della riunificazione pacifica, ma isolarli progressivamente e metterli di fronte a un aut-aut che ricordi la celebre risposta degli ateniesi, classico del realismo politico, alla domanda dei Meilii minacciati di assedio, su quale utilità avrebbero tratto dal capitolare: “Obbedire è più conveniente che soccombere”.

Dopo il recente incontro da Xi e Joe Biden a San Francisco il dialogo tra le due parti si è ristabilito, persino quello militare, e ciò tornerebbe utile per controllare un’eventuale escalation che come nel ‘58 non si tradurrebbe in vero conflitto, ma alzerebbe progressivamente la posta in gioco per Washington collegandola alla crisi ucraina e mediorientale e rafforzando cosi il fronte unito anti- americano.
Tutto ciò in attesa di un indebolimento — e magari di un’ulteriore eventuale frattura — del fronte interno americano durante le elezioni di novembre, sperando che esso conduca, come qualcuno sostiene, a una revisione dei perimetri dell’egemonia globale statunitense e a una conseguente regionalizzazione dei conflitti, che nel caso di Taiwan favorirebbe inevitabilmente la posizione di Pechino. Se cosi fosse, allora sarebbe verosimile pensare che Xi si stia già cospargendo il volto di inchiostro…

Esiste tuttavia uno scenario in cui la leadership a Pechino potrebbe comprendere che il se riunificare Taiwan alla madrepatria è meno urgente della risoluzione dei problemi interni al Paese, problemi legati a un modello economico ormai saturo e insostenibile come dicono ormai gli economisti di mezzo mondo, cinesi inclusi. In questo scenario, il dogma della riunificazione verrebbe affidato a un orizzonte meno prossimo e lo spazio per il dialogo proposto dal neo presidente Lai sarebbe certamente più ampio. Sebbene siano in molti a sperarlo, sono solo in pochi purtroppo a crederci.



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