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L’ultimo Miyazaki. Bello, surreale ma un po’ confuso

II ragazzo e l’airone ci parla del 12enne Mahito che finisce, quasi per magia, in un mondo parallelo dal quale preferisce uscire per cambiare quello reale. Il disegno di Miyazaki sembra faccia tesoro anche della cultura occidentale. La recensione di Eusebio Ciccotti

Siamo in Giappone durante la Seconda guerra mondiale. Il ragazzo Mahito perde la madre durante un bombardamento dell’ospedale della città in cui ella lavora, divorata dalle fiamme. A nulla vale la folle corsa a piedi, nonostante il padre gli abbia detto di rimanere in casa, essendo il più piccolo. Giunto trafelato, cerca di penetrare tra le fiamme di quello che resta dell’ospedale, gridando “Mamma! Mamma!”. Lo spirito della mamma, tra le fiamme, lo saluta con amore, deve andare verso l’alto, orami è morta, qui sulla terra. È il folgorante abbrivio di Il ragazzo e l’airone (2023) di Hayao Miyazaki, conosciuto per i suoi molti capolavori, tra i quali Il mio vicino Totoro (1988) e, soprattutto, la Città incantata (2001).

Forse per reazione al lutto, ma anche al fatto che il padre, di estrazione borghese (è proprietario di una fabbrica impegnata nel fornire materiale per lo sforzo bellico dell’Impero), lo obbliga a frequentare una scuola che non gradisce, che Mahito si autolesiona (oggi purtroppo diversi adolescenti lo fanno come conseguenza di uno stato psicologico non sereno). Prende una pietra e colpisce la tempia destra (le rosse macchie di sangue che cadono in terra, si allargano coprendo l’erba e il suolo sono d’impatto). Tornato a casa, accusa dei fantomatici compagni dei quali non può fare i nomi, ma raggiunge l’obiettivo di non andare a scuola.

Il padre, anche a causa dei bombardamenti in città, trasferisce il figlio, con la nuova consorte, la zia Natsuko, in attesa di un figlio, presso la tenuta di campagna dove sono accolti da delle gentili donne della servitù, tutte anziane, chiacchierone e nane. Nella tenuta vi è un bosco che nasconde, dietro intricati e fitti alti arbusti, e giganti siepi, una vecchia torre, in cui, sapremo, il prozio faceva degli esperimenti. Entrato nella torre, tramite una porta magica, per seguire la bella Natsuko, attirata da una misteriosa forza, finirà in un mondo sotterraneo che a sua volta è come il nostro mondo, con cielo, la vegetazione, i laghi… ma governato da un essere oscuro che sembra coincidere con il prozio.

Ad accompagnarlo è l’airone cinerino, dalla doppia natura, umana/animale, che, inizialmente, attaccava il ragazzo sin dal suo arrivo in campagna, ma che si trasformerà, grazie all’abilità di Mahito di difendersi con la freccia e un arco costruiti da sé, in alleato, svolgendo l’uccello-uomo, il ruolo di “aiutante magico” (come ci ricorda Vladimir Propp in Morfologia della fiaba, 1927).

Mahito incontrerà, nel mondo parallelo, altri aiutanti, esseri umani che vivono nell’aldilà (come la dolce Himi) insieme a spiriti della natura positivi (gli jōkai, sorta di elfi di forma circolare che aspirano a volare verso il cielo dove vivranno realizzati), e animali negativi (qui i feroci pellicani che si nutrono degli jokai impedendo loro di alzarsi verso il cielo, ossia la vita e la libertà: forte metafora).

Miyazaki inserisce continui slittamenti di senso e svolte intricate nella trama: a momenti, per esempio, si diverte a far coincidere la sorella di Mahito con la giovane mamma defunta che a sua volta somiglia curiosamente alla seconda moglie in dolce attesa. La filosofia di Miyazaki è quella dello sconfinamento psicologico e mentale tra esseri umani e non umani, tipico della cultura nipponica, tutti comunicanti all’interno di una sorta di liquido mentale che fa dei vivi la continuazione dei morti e viceversa.

In questo viaggio di formazione il dodicenne Mahito, dopo esser maturato e aver riconosciuto che si era procurato la lesione disonestamente, dunque la “confessione” pubblica, non accetterà il regno parallelo che il prozio vuole lasciargli in eredità: “un mondo assolutamente perfetto, non come quello da cui provieni pieno di imperfezioni” sottolinea l’uomo e Signore del mondo parallelo. Mahito lo rifiuta poiché lo ritiene ingiusto e antidemocratico, nonché privo di poesia, scegliendo di tornare in superficie, con la sua bella matrigna, ossia nel suo mondo, “certamente imperfetto e, per tale ragione, da migliorare”.

Il risultato estetico del film è quello di entrare in un mondo fantastico, nel quale la visione manichea di Miyazaki è servita da un disegno perfettamente tridimensionale, con i colori vividi e ben contrastati, in cui i tratti orientali dei volti dei personaggi sono limati a favore di un tipo più indoeuropeo, e, vogliamo credere, non solo come obiettivo di mercato, ma anche quale testimonianza della fusione dei tratti somatici tra Est e Ovest, Sud e Nord del mondo, “specifico” etnico del terzo millennio. Gli occhi grandi delle anime di Miyazaki, che rimangono il suo tratto distintivo, sembrano accogliere le linee dei volti tondeggianti della tradizione disneyana riletta attraverso il cinema animato cèco anni Settanta, quello, ad esempio, di un Karel Zeman o di un Josef Kábrt.

 

 

 

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