Skip to main content

Perché l’attacco iraniano alla Tower 22 è un test politico per Biden

L’uccisione alla Tower 22 di tre militari americani apre una serie di polemiche interne negli Stati Uniti in campagna elettorale e porta a riflessioni sulla politica da adottare nei confronti di Teheran, mandante supposto delle milizie sciite anti-Usa in Medio Oriente

“Colpiamo l’Iran adesso. Colpiamo forte”, dice su X Lindsey Graham, senatore conservatore dal South Carolina ex consigliere informale di Donald Trump per gli affari internazionali. “Joe Biden e i funzionari dell’amministrazione hanno preso una decisione il primo giorno non solo per placare il regime iraniano, ma anche per consentire agli ayatollah di attaccare gli americani e gli interessi americani in tutto il Medio Oriente. Hanno arricchito il regime sospendendo l’applicazione delle sanzioni sull’energia e si sono voltati dall’altra parte mentre l’Iran costruiva un arsenale nucleare virtuale”, rilancia il collega texano Ted Cruz.

Quella di Cruz è una ricostruzione non del tutto corretta riguardo alle sanzioni (che l’amministrazione Biden ha tenuto fisse, eccome, contro Teheran), ma serve a spingere l’uso della vicenda dell’attacco alla “Tower 22” — postazione delle forze speciali americane in Giordania — come proxy di politica interna. D’altronde questo è l’anno elettorale, e la campagna dei Repubblicani si basa da anni sul sostenere l’incapacità dei rivali Democratici di proteggere gli interessi degli americani (l’America First trumpiano nasce da qui) e quanto sta accadendo in Medio Oriente può essere utilizzato benissimo come vettore.

Cosa è successo alla Tower 22

Il Pentagono ha comunicato che nella notte tra sabato e domenica tre militari americani sono stati uccisi e almeno 34 sono rimasti feriti in un attacco (tramite droni one-way) contro una postazione al confine tra Giordania, Siria e Iraq. Questo genere di azioni sono spesso rivendicate dalle milizie sciite che il Corpo dei Guardiani della rivoluzione islamica (noti con l’acronimo inglese Irgc, la forza teocratica iraniana), ha da anni piazzato all’interno del territorio siriano (hanno puntellato il regime assadista di Damasco fino a permettergli di affogare i ribelli nel sangue e vincere la guerra civile) e iracheno (dove sono uno Stato nello Stato, cresciuti militarmente anche per l’impiego in Siria e in grado di esprimere rappresentanti nel governo).

L’attacco alla Tower 22 è il più clamoroso (per danni subiti dagli Usa) degli oltre 150 subiti da quando Israele ha lanciato l’invasione della Striscia di Gaza. Del numero di queste azioni negli ultimi quattro anni, o nell’ultimo decennio, se ne è invece perso il conto. L’Iran e le sue milizie stanno usando questa strategia per rendere un incubo la presenza militare statunitense nella regione. L’obiettivo è chiaro: fare in modo che per non subire danni e perdite gli americani lascino il Medio Oriente, o almeno quei Paesi in cui l’internazionale sciita ha più interessi.

Nello specifico, la Tower 22, base statunitense nel nord della Giordania, è prossima al campo profughi siriano di Rukban, abitato da 15.000 persone, alla guarnigione di Al-Tanf, e alla base irachena di Al Waleed dove sono schierate truppe statunitensi. Questa zona è un punto strategico conteso tra Iraq e Siria, con milizie iraniane che cercano il controllo. La presenza americana è legata a due tipi di attività. Il primo, da dove nasce, è la funzione di counter-terrorism, perché quelle sono le zone in cui le spurie dello Stato islamico si sono rifugiate dopo l’obliterazione della dimensione statuale dei baghdadisti (e potrebbero rinascere). Il secondo, tenere un piede nel terreno, monitorare dal posto una serie di traffici che riguardano le milizie e in qualche modo fare funzione di contenimento davanti all’espansione iraniana (e russa?).

Questa doppia utilità tattica e strategia è detestata dagli iraniani e dalle milizie connesse, la cui forza è cresciuta notevolmente negli anni e vorrebbero avere totale libertà di azione. Gli attacchi recenti sono attribuiti alla “Resistenza islamica dell’Iraq”, nuova generazione delle sponsorizzazioni delle Irgc, gruppo che richiama “la resistenza” contro “l’invasore” occidentale o israeliano. Un’entità ombrello nata dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre, che però comprende le ben note Kateeb Hizballah, Harakat Hezbollah al-Nujab e Asa’ib Ahl al-Haq, protagoniste di attacchi contro le forze occidentali nella regione sin dalla Guerra d’Iraq di venti anni fa.

Controllate il livello dello scontro

Josh Rogin, columnist di sicurezza nazionale del Washington Post la chiama “sfacciata escalation”. Dei 34 feriti, otto hanno richiesto l’evacuazione dalla Giordania per cure di livello superiore, ma sono in condizioni stabili dice il Pentagono. E tutto avviene mentre il giorno precedente i miliziani yemeniti Houthi hanno cercato di colpire un cacciatorpediniere statunitense con uno dei missili balistici di fabbricazione iraniana che stanno usando da due mesi lungo le rotte indo-mediterranee — producendo una destabilizzazione geoeconomica globale.

Anche gli Houthi hanno collegamento con l’Irgc, ma l’Iran nega coinvolgimenti diretti — che invece per gli Stati Uniti ci sono sia sul piano dell’invio di armi che su quello dell’assistenza agli attacchi, e anche per questo Washington sta chiedendo a Pechino di usare la sua influenza su Teheran per aiutare a risolvere questo dossier, cercando di portare la Cina a prendersi responsabilità da potenza.

Per gli Usa il quadro è complesso: vedono il principale alleato impantanato in una guerra che sta durando da troppo tempo mentre le forze e gli interessi statunitensi nella regione sono sotto un assedio a media-bassa intensità condotto attraverso i proxy iraniani e la narrazione anti-occidentale. La Repubblica islamica ha negato qualsiasi collegamento anche con l’attacco alla Tower 22 e ha invece accusato Washington di aver acceso le tensioni nella regione. ‘L’Iran non ha nulla a che fare con gli attacchi in questione”, ha detto al Wall Street Journal un portavoce della missione iraniana presso le Nazioni Unite a New York. “Il conflitto è stato avviato dalle forze armate degli Stati Uniti contro i gruppi di resistenza in Iraq e Siria; e tali operazioni sono tra loro reciproche”.

C’è una parte di verità: non è chiaro infatti quanto Teheran controlli i suoi proxy a questo punto che hanno acquisito capacità militari, economiche e socio-politico. Le singole milizie hanno ormai interessi personali, devono mantenere presa sul potere e proteggere la narrazione, agiscono per calcolo più che per ordine — come racconta per esempio il comportamento di Hezbollah, partito/milizia libanese che di queste strategie iraniane è il prototipo (im)perfetto. E però, l’Iran è quanto meno responsabile di aver creato la situazione per aver militarizzato la protezione della sua influenza regionale (e molto probabilmente non fa troppo per frenare i suoi vettori).

Road to Usa2024

Trump dice che questo “mai” sarebbe successo se fosse stato presidente lui, perché con lui ci sarebbe “la pace nel mondo”. L’ex presidente e principale candidato repubblicano dimentica però che queste situazioni sono accadute spesso anche sotto la sua presidenza, in particolare dopo che lui ordinò l’uccisione — con un attacco drone a Baghdad il 3 gennaio — del generale Qassem Soleimani, capo dell’unità speciale Quds delle Irgc e mente dietro alla costruzione del sistema di milizie regionali. Tanto che gli ultimi quattro anni questi attacchi sono stati spesso dedicati alla vendetta per l’eliminazione di Soleimani, che in Iran ha assunto un’aurea epica (lo dimostra anche l’attentato baghdadista di poche settimane fa nel cimitero dove è sepolto). Tra questi attacchi subiti dall’amministrazione Trump anche quello del marzo 2020 in cui furono uccisi due militari statunitensi.

Eppure questa narrazione può essere efficace, ed efficacemente alterata, nel quadro della campagna elettorale americana. Uno staffer repubblicano fornisce un background sul senso logico delle critiche (usate per parlare a una parte di elettorato indeciso): “La politica di deterrenza nei confronti dell’Iran messa in atto dall’amministrazione Biden è un completo fallimento. Con oltre 100 attacchi alle forze statunitensi nella regione, l’Iran rimane imperturbabile. La fiducia nella squadra di sicurezza nazionale di Biden è ormai compromessa, e senza un cambiamento immediato, più militari americani nella regione potrebbero pagarne il prezzo”.

Quale cambiamento? “Solo attraverso l’uso della forza sulle infrastrutture e il personale iraniano si potrà porre fine agli attacchi”. La situazione in Medio Oriente è un test politico per Biden. Funzionari statunitensi dicono che la risposta di “Usa e alleati” all’attacco subito alla Tower 22 sarà “forte e rapida” e non solo contro i gruppi sostenuti dall’Iran, ma forse anche contro le Irgc.


×

Iscriviti alla newsletter