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Progetti che diventano modelli. Il Piano Mattei per l’Africa secondo Giro

Conversazione con l’ex viceministro degli Esteri: “Bisognerà individuare dei programmi pilota tra trasferimento di know how, formazione e piccole e medie imprese. Potrebbe essere l’occasione per far sbocciare dei progetti di eccellenza che poi possono diventare modello”

Ambasciate e voli, oltre che infrastrutture e prestiti, sono due strumenti di influenza che in Africa hanno un notevole peso specifico, spiega a Formiche.net l’ex viceministro degli Esteri Mario Giro, cerchiando in rosso il ruolo della Turchia. L’occasione è rappresentata da un cambio di paradigma nei rapporti con l’Africa, che prende il nome di Piano Mattei, “opportunità per far sbocciare dei progetti di eccellenza che poi possono diventare modello”, osserva in questa ampia conversazione che spazia al ruolo della Cina, agli errori del colonialismo ma anche dell’occidente e degli stessi africani. Fino al ruolo nuovo dell’Italia in vista del vertice Italia-Africa in programma a Roma a fine gennaio. “Gli auspici sono quelli di un rinnovato interesse per una relazione non predatoria, come più volte osservato da Giorgia Meloni, quindi vuol dire in qualche maniera provare a fare uno scambio win-win”.

Come costruire nuove relazioni tra Europa e Africa, sia alla luce di un quadro internazionale sempre più complesso, sia per governare fenomeni altrettanto complessi come i flussi migratori?

È una necessità su cui l’Italia si sta interrogando ormai da una ventina d’anni, senza trovare ancora veramente il modello giusto. Si è fatto molto per il partenariato sulla questione migratoria, ma non abbastanza probabilmente, anche perché i leader africani non vedono il loro interesse in questo scambio. Non bastano i soldi, ci vuole qualcosa di più. E poi il mondo è cambiato sotto i nostri occhi, sta cambiando l’Africa che vuole decidere da sola. Aggiungo che non vuole più essere terreno di scontro, di influenze, ma essere piuttosto protagonista. Per questo chiede un posto al G20 e l’ha ottenuto. E vorrebbe anche un posto nel Consiglio di sicurezza permanente, che sarà molto difficile.

Come si può inserire in tale contesto il Piano Mattei durante la presidenza italiana del G7?

Si tratta del tentativo dell’Italia di immaginare un atteggiamento più paritario. Il vertice Italia-Africa di fine gennaio può essere un nuovo inizio. Gli auspici sono quelli di un rinnovato interesse per una relazione non predatoria, come più volte osservato da Giorgia Meloni, quindi vuol dire in qualche maniera provare a fare uno scambio win-win.

In che modo?

Individuare ciò che agli africani interessa. E la cosa che interessa più di tutte, guardando loro all’Italia, è avere il know how per sviluppare un sistema di trasformazione manifatturiera e industriale in casa propria, a partire dalle materie prime che l’Africa ha in abbondanza, sia agricole che minerarie, che estrattive. Quindi un’Africa che non è soltanto un luogo dove si va a prendere ma in cui si costruisce, si trasforma. Ecco l’idea di fondo.

Con quali strumenti?

Gli strumenti possono essere tanti, sicuramente come ha detto la premier c’è anche bisogno dell’Europa perché non basta l’Italia: bisognerà individuare dei progetti pilota tra trasferimento di know how, formazione e piccole e medie imprese. Secondo me potrebbe essere l’occasione per far sbocciare dei progetti di eccellenza che poi possono diventare modello.

Il colonialismo del passato si è rivelato la causa del raddoppio delle disuguaglianze, inasprendo i conflitti? E come l’elemento della solidarietà, valoriale oltre che materiale, può essere utile?

Il colonialismo sicuramente è stato un rapporto paternalistico, nella sua parte meno peggiore, che anche secondo gli storici ha creato molti problemi, che oggi si vedono riemergere nel rancore. È vero che l’Europa ha portato molteplici contributi in Africa però, come diceva Robespierre, i profeti armati o i missionari armati non piacciono a nessuno. Quindi lì esiste una ferita che va sanata, nella consapevolezza che il colonialismo non è la soluzione di tutti i mali, perché anche l’Asia è stata colonizzata eppure si è sviluppata. Piangersi addosso per cinquant’anni non è certo la soluzione, in questo emerge anche una responsabilità africana dei fallimenti africani. Per quanto concerne la solidarietà cattolica sottolineo che è molto importante ma non è solo italiana.

Ovvero?

Ha creato una delle poche reti che regge ancora in Africa, una rete continentale che sostiene le scuole, i dispensari, i centri di salute, gli ospedali. Vi sono numerose esperienze a cui si sono aggiunte anche esperienze laiche. Devo dire che l’Europa si è manifestata in quanto società civile, in quanto Stati membri, in quanto Unione europea come il più grande donatore. La generosità europea è forte: non va condannata va anzi protetta perché ha creato tanti legami. Io posso parlare per Sant’Egidio che ha creato dei modelli che possono essere ripresi.

È stato un grave errore aver lasciato campo libero a interlocutori come Cina e Russia?

Da un punto di vista economico l’apporto cinese, dal 2000, è stato fondamentale per rilanciare il continente perché l’Occidente in generale si era un po’ discostato, avendo fatto un calcolo molto sbrigativo tra i costi e benefici. In seguito c’era stata un’ondata liberista che aveva in qualche modo cambiato il modello di sviluppo: a quel punto sono arrivati i cinesi. I cinesi arrivano improvvisamente, cominciano a comprare di tutto a qualunque prezzo e questo rilancia l’Africa: per cui dal punto di vista economico bisogna ringraziare i cinesi di aver rimesso l’Africa al centro.

Dopo 20 anni quale il bilancio guardando anche al domani?

Le cose dopo vent’anni sono cambiate ancora, perché dopo tanti doni i cinesi hanno fatto anche tanti prestiti che adesso è difficile recuperare. Per cui si è creato uno scontro tra gli africani e i cinesi: non è che tutto vada a gonfie vele, l’Africa è tornata ad essere un terreno di competizione tra occidentali, cinesi e russi. E ultimamente anche potenze medie come i coreani, gli indiani, i turchi. Questi ultimi sono impressionanti.

Per quale motivo?

Perché hanno molte più ambasciate dell’Italia, circa una trentina e in Africa sono molto presenti. La Turkish Airways è diventata la linea aerea più più diffusa in Africa, segnali di molta influenza in loco. Quello che vogliono gli africani è non essere solo un luogo, un terreno di scontro, di influenze, ma essere protagonisti delle loro scelte. E quindi cosa fanno? Scelgono di volta in volta, tra tutti questi competitori che si presentano, come pare loro meglio.


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