Le difficoltà dell’Occidente sono evidenti, i sacrifici del popolo ucraino inimmaginabili, ma Russia e Cina (lasciamo stare l’Iran o la Corea del nord) non stanno vivendo un periodo migliore. A parte il numero dei caduti, destinato ad aprire ferite profonde anche in una società autoritaria come quella russa, la crisi economica e finanziaria si avverte in entrambi i Paesi. L’analisi di Gianfranco Polillo
Semplice manfrina o qualcosa di più serio? Quale deve essere la chiave di lettura dell’ordine del giorno, inizialmente presentato a nome della Lega dal suo capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, al decreto legge che proroga fino alla fine dell’anno la fornitura di armi all’Ucraina? Poi approvato in un testo rimaneggiato e fortemente depotenziato sul piano politico. Interrogativo che comunque resta, considerate le sue profonde implicazioni di carattere generale. La manfrina era evidente nella scelta dello strumento, “Gli ordini del giorno – diceva Antonio Giolitti, sono come un sigaro, che non si nega a nessuno”. Ben altre potevano essere, infatti, le scelte. Si poteva, ad esempio, far ricorso a dei veri e propri emendamenti, che riducessero la proroga, a solo sei mesi, in vista delle varie scadenze elettorali destinate ad incidere sui grandi equilibri politici internazionali. E poi vedere. Scelta comunque difficile. Se si esclude, la presa di posizione degli uomini di Fratoianni (soppressione dell’articolo unico), gli stessi pentastellati avevano fatto il gioco delle tre carte. Presentando un emendamento che non spostava di una virgola il contenuto reale del decreto legge.
Nel comportamento della Lega ha quindi indubbiamente giocato un elemento elettoralistico. Quella voglia, costantemente manifestata, di volersi distinguere all’interno della coalizione di centro destra, per non portare acqua al mulino di Giorgia Meloni. Il cui atlantismo non va certo a genio ad un partito più volte accusato (giustamente o meno) di essere la quinta colonna di Putin in Italia ed in Europa. Fosse così, sarebbe questa una scelta in grado di soddisfare gli appetiti di Mosca? I dubbi sono più che legittimi. Il Cremlino, si guardi ai rapporti con Viktor Orban, il presidente ungherese, non ama certe sofisticazioni. È pronto a ricompensare i propri supporter (leggi esportazioni di gas), ma in compenso pretende atti molto più concreti. Ben oltre le liturgie del Parlamento italiano. Ed ecco allora un secondo possibile indizio: le prossime elezioni europee, in cui la Lega, anche al di là di sondaggi estremamente sfavorevoli, parte svantaggiata. Il suo gruppo parlamentare attualmente composto da 22 deputati, avendo calamitato circa il 34 per cento dei voti nelle passate elezioni, rischia la decimazione. Pertanto un po’ di “movimentismo” si rende necessario.
Archiviate le ragioni meno nobili, si può passare alle preoccupazioni più serie. Sul tavolo una situazione indubbiamente difficile: “La controffensiva dell’Ucraina – è ricordato nel documento – non ha dato i risultati attesi”. La prospettiva è quella di una “guerra di posizione”, in cui gli uomini di Zalensky non possono avere la meglio. Tant’è che “lo stesso premier ucraino – si legge sempre nell’ordine del giorno – come si apprende da organi di stampa, ha chiesto alla Svizzera di ospitare un tavolo di pace”. Sul fronte degli alleati vi sono poi le incognite delle due elezioni, quelle europee e quelle americane, destinate entrambe a far crescere il peso di un’opinione pubblica che condivide sempre meno la politica degli aiuti militari. Mentre vede di buon occhio “una soluzione pacifica e diplomatica del conflitto”. Sul fronte opposto, invece, “la Russia ha aggirato le sanzioni occidentali, fortificando le partnership con i paesi del sud globale (Corea del nord, Cina, Iran)”. Tutto indubbiamente vero, ma solo fino ad un certo punto.
Ciò che non convince è quest’immagine di un Occidente che cala le braghe. Quasi terrorizzato dall’avanzare dei suoi nemici storici. Pronto ad abbandonare la partita, ancor prima di giocarla. Senza per altro usare tutti i mezzi (non necessariamente militari) a disposizione, per contrastare una simile deriva. Fosse così, sarebbe l’inveramento di una vecchia tesi di Mao Tze Tung: quella secondo la quale gli Stati Uniti altro non erano che una “tigre di carta”. Ora pronti ad assumere, all’indomani delle prossime elezioni presidenziali, “una postura isolazionista”, pur di disimpegnarsi dalle “dinamiche europee”, ma soprattutto dal “conflitto in Ucraina”. Come recita l’ordine del giorno. Pericolo che indubbiamente esiste, ma che non va né sopravvalutato, né tanto meno auspicato in una sorta di wishful thinking. Perché i rapporti di forza tra questi due mondi contrapposti non sono tali da giustificare una simile ipotesi.
Le difficoltà dell’Occidente sono evidenti, i sacrifici del popolo ucraino inimmaginabili, ma Russia e Cina (lasciamo stare l’Iran o la Corea del nord) non stanno vivendo un periodo migliore. A parte il numero dei caduti, destinato ad aprire ferite profonde anche in una società autoritaria come quella russa, la crisi economica e finanziaria si avverte in entrambi i Paesi. Gli ultimi dati forniti dalla Banca centrale russa, per quanto soggetti a possibili rimaneggiamenti, non lasciano dubbi. Dopo il grande exploit del 2022, quando la Federazione russa era in grado di manipolare il prezzo del gas, chiuderà l’anno appena trascorso con una riduzione dell’attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti di circa 187 miliardi di dollari. Ancora più pesante il crollo della bilancia commerciale con una riduzione delle esportazioni per 170 miliardi di dollari ed un aumento delle importazioni per quasi 30. Le sanzioni dell’Occidente saranno state pure “aggirate” come paventa la Lega. Ma il danno recato all’economia russa è risultato enorme.
Lo shift a favore del Sud globale, almeno nel 2023, non è quindi riuscito. Le ragioni di fondo sono evidenti. Ancora nel 2022, secondo i dati del Fondo monetario internazionale, l’Eurozona, gli Stati Uniti, e la Gran Bretagna garantivano alla Russia un surplus valutario pari a circa il 43 per cento del totale. Dalla Cina, invece, derivava solo l’1 per cento. Poco più di 1 miliardo contro 131,5. Una sproporzione che sarà difficile colmare. Dal 2005 al 2022 il surplus derivante dagli scambi con le economie avanzate si è progressivamente ridotto dal 65 al 52 per cento, a favore di quelle emergenti. Ma il processo (13 punti in 17 anni) è stato lungo e travagliato. Senza contare che quelli erano stati gli anni eroici dell’iper-globalizzazione. Quindi, prudenza nei giudizi.
Partire dal commercio estero, sia nel caso della Russia che nella Cina, è importante per capire la natura del “modello di sviluppo” che entrambe hanno seguito. Con una differenza fondamentale: nel caso della Russia il surplus era garantito dall’export di materie prime (soprattutto gas e petrolio); nel caso della Cina da quello dei prodotti industriali. Da queste attività di base, in entrambi i casi, derivavano ingenti risorse finanziarie, sotto forma di avanzi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, che rappresentavano poi il volano in grado di assicurare un livello di benessere più o meno diffuso. In Russia soprattutto a favore dei clan oligarchici dell’entourage di Putin e del complesso militare. In Cina per allargare progressivamente le basi produttive del Paese e sviluppare ulteriormente il proprio apparato industriale. Nonché per gestire la trasmigrazione, senza traumi, dalle campagne verso le città. In ciò facilitata dal grande sviluppo immobiliare oggi, insieme alle Borse valori, particolarmente in crisi,
Solo alcuni dati per comprendere la dinamica e l’arresto di quel meccanismo. All’inizio del Terzo Millennio il surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti russa era stato pari al 16,3 per cento del Pil. In Cina il massimo storico era stato toccato nel 2007, con una percentuale pari al 14,2 per cento del Pil. Nel 2023, invece, per entrambi i Paesi quelle due percentuali sono scese, secondo il FMI, rispettivamente al 3,4 per cento del Pil (Russia) ed all’1,5. Stretta che ha fatto crollare, come un castello di carta, l’intera impalcatura. Basti guardare nel primo caso (Russia) al tasso di inflazione che la Banca centrale stima ancora oggi al 7,4 per cento, alla lenta ma costante svalutazione del rublo, al deficit del bilancio pubblico (meno 3,7 per cento del Pil) quasi identico a quello prodotto dall’epidemia di Covid, ad un debito (pubblico e privato) astronomico, del 233,3 per cento del Pil, già nel 2020 (ultimo dato disponibile). Elementi che mostrano tutte le difficoltà che il Cremlino ha nel continuare a finanziare una guerra costosa e sanguinaria.
Per la Cina la caduta è stata più o meno identica. Il venir meno dell’attivo delle partite correnti, rispetto agli anni precedenti, ha avuto l’effetto di un terremoto. Difficoltà nel continuare a finanziare le grandi imprese, crollo del mercato immobiliare, già gonfiato dalla speculazione edilizia. Aumento dei livelli di disoccupazione specie giovanile. Ancora nel 2022 dai rapporti commerciali con le “economie avanzate” derivava l’83 per cento del surplus della sua bilancia dei pagamenti. Dati che dimostrano quanto sia forte la dipendenza cinese dalle grandi metropoli occidentali, fin troppo benevoli nel cedere quote del proprio mercato interno. Benevolenza che può cessare, nel momento in cui la pressione militare ai confini dell’Europa dovesse divenire insostenibile. Soprattutto a causa del gioco di sponda favorevole della Cina nei confronti di Putin.
Finora questo limite non è stato superato. Ma i segnali ci sono tutti. Le regole del trasferimento tecnologico – si pensi ai microchip – sono divenute più rigide. Il puro mercantilismo di un tempo è stato integrato da valutazioni di carattere strategico, come nel caso delle stampanti 3D. Le catene globali del valore – le cosiddette supply chain – sono state ridisegnate per tener conto dei vincoli di sicurezza. Per escludere quei Paesi che non offrono le necessarie garanzie. Non siamo ancora giunti a più drastiche restrizioni del commercio internazionale, che colpirebbero il cuore della Cina, per costringerla ad uscire dall’ambiguità, ma solo perché la situazione non lo richiedeva. Almeno fin quando gli Houthi non sono scesi sul piede di guerra, istigati dall’Iran. A sua volta alleata di Mosca. Ed entrambi garantiti dal grande ombrello cinese. Ma prima che l’Occidente ceda le armi, c’è questa intera partita da giocare. All’insegna di un nuovo “Whatever it takes”.