Skip to main content

Taiwan resterà il principale punto di attrito tra Usa e Cina. Ecco perché

Le ragioni della mossa rischiosa dell’amministrazione Biden di inviare una delegazione adesso a Taiwan sono due: mandare un messaggio a Pechino, ma anche avvisare Taipei su status quo e ambiguità strategica

Una delegazione statunitense di alto livello, composta da ex alti funzionari, è arrivata a Taipei, “mettendo alla prova la moderazione della Cina nella sua risposta alle elezioni presidenziali del vicino democratico”, per dirla come il Financial Times, che giovedì scorso aveva fatto lo scoop sul viaggio. Soprattutto, mette alla prova la gestione incrociata del dossier, che è ormai il punto di attrito principale tra Washington e Pechino. E lo dimostra anche l’attenzione con cui le due potenze hanno scelto le parole per trattarlo — selezionate con cura per non alterare questo clima di comunicazione in corso.

Sabato, Taiwan ha eletto Lai Ching-te presidente, dando al Partito Democratico Progressista (Dpp) un terzo mandato. Situazione senza precedenti, con il partito attualmente più autonomista che da 12 anni consecutivi è al governo, a cui in teoria si potrebbero anche aggiungerne altri quattro nel 2028.

La Cina ha più volte denunciato Lai e la narrazione del partito a cui appartiene come pericolosa, in quanto tendente al separatismo. Lai ha un passato di partecipazione alle iniziative dell’ala del Dpp che vorrebbe la formalizzazione dell’indipendenza de facto di Taiwan — in contrasto con il mantenimento dell’ambiguità dello status quo sostenuta dalle altre posizioni interne e internazionali. Forse anche per questo ha preso il controllo dell’amministrazione con solo il 40% dei voti, un risultato non iperbolico? Secondo il governo cinese sì, perché non rappresenterebbe l’opinione pubblica tradizionale (che però sta cambiando). Forse anche per questo la prima dichiarazione di Joe Biden è stata sul non-sostegno americano a qualsisia eventuale richiesta di indipendenza — una posizione classica pro-status quo.

Tuttavia, la Cina ha usato il contesto per attaccare Washington lo stesso: il ministero degli Affari Esteri di Pechino ha dichiarato di aver presentato “solenni rimostranze” agli Stati Uniti per la dichiarazione del Segretario di Stato Antony Blinken che si congratulava direttamente con Lai. L’accusa: aver inviato “un grave segnale sbagliato alle forze separatiste dell’indipendenza di Taiwan”. In questo contesto — dove Washington gestisce la pressione delle dichiarazioni pubbliche di Taiwan secondo la classica linea dell’ambiguità strategica — si inserisce la visita delle delegazione statunitense a Taipei.

Il viaggio segue situazioni simili avvenute sia nel 2000 sia nel 2016, quando Taiwan aveva eletto un nuovo presidente. Ma il quadro della competizione sino-americana è totalmente diverso adesso. “Come già avvenuto in precedenza dopo un’elezione presidenziale a Taiwan, il governo statunitense ha chiesto a ex alti funzionari di recarsi a Taiwan a titolo privato. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale Stephen Hadley e l’ex vice segretario di Stato James Steinberg arriveranno a Taipei il 14 gennaio”, ha anticipato a stretto giro l’American Institute in Taiwan, Ait, la quasi-ambasciata di Washington a Taipei.

La presidente dell’Ait, Laura Rosenberger, guiderà i due in incontri con le forze di maggioranze e opposizione per “trasmettere a Taiwan le congratulazioni del popolo americano per il successo delle elezioni, il sostegno alla continua prosperità e crescita di Taiwan e il nostro interesse di lunga data per la pace e la stabilità nello Stretto”, stando allo statement ufficiale sulla visita.

Le ragioni di una mossa rischiosa

Alcuni osservatori ritengono che la missione statunitense in questo momento sia rischiosa perché Pechino si oppone fermamente a qualsiasi contatto ufficiale tra il governo di Taiwan e altri Paesi e potrebbe sostenere di essere provocata. E Hadley e Steinberg hanno una seniority superiore a quella dei membri di analoghe delegazioni post-elettorali arrivati negli anni passati. Anche se di minor valore rispetto alla visita di Nancy Pelosi, quando la leader democratica era Speaker della Camera, c’è il rischio che possa alterare il clima. In quell’occasione, era l’agosto 2022, furono interrotte le comunicazioni military-to-military (riprese solo da pochi mesi) e i rapporti subirono un sostanziale raffreddamento.

È vero come dicono da Taipei che è del tutto in linea con i precedenti, e che non c’e niente di nuovo di cui preoccuparsi, ma dalla reazione di Pechino potrebbe anche dipendere parte delle standing cinese. Il leader Xi Jinping si trova infatti davanti a un dilemma: da un lato, vuol mantenere — anche per senso di responsabilità davanti al mondo terzo che lo osserva, come il Global South — relazioni controllate con gli Usa, per evitare escalation che potrebbero intaccare equilibri collettivi; dall’altro sa che deve spingere sulla narrazione, sia quella nazionalista interna (con un tema come Taiwan che è ultra-sensibile) sia quella internazionale anti-americana.

Washington è a sua volta consapevole che questa gestione è complessa, e per tale ragione non rinuncia a stressare il dossier taiwanese (che fa peraltro parte della narrazione a difesa delle democrazie, essendo Taipei un “vibrante” esempio, per usare l’aggettivo scelto dal dipartimento di Stato).

E però, è possibile che l’amministrazione Biden abbia scelto di inviare i suoi delegati adesso non solo per il gioco di potenze con la Cina. Un altro probabile scopo della missione potrebbe essere stato quello di comprendere in modo tempestivo e accurato le prossime mosse di Lai. Farlo adesso, in mezzo all’entusiasmo elettorale, potrebbe essere più utile per comprendere l’anima vera che muoverà le prossime azioni di governo. Va tenuto conto di quel passato attivista di Lai, su cui Washington vuole garanzie, perché il mantenimento dello status quo è un punto determinante della policy taiwanese americana (su cui per ora non sono previste modifiche de iure e non sono accettati scatti).

×

Iscriviti alla newsletter