L’azione, non per deterrenza, ma per degradare le capacità operative degli Houthi, potrebbe ristabilire equilibri di forza. Ma si attende la reazione degli yemeniti. Londra e Washington sottolineano comunque di aver agito per tutelare la sicurezza collettiva
Dipenderà dalla reazione degli Houthi, se non fermeranno gli attacchi “ci saranno altri bombardamenti come quello di questa notte”, spiegano le fonti statunitensi, perché “dobbiamo proteggere la sicurezza collettiva lungo quelle rotte”. Gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno effettuato azioni di precisione contro sedici di strutture utilizzate dagli Houthi in varie parti dello Yemen.
I raid seguono la destabilizzazione prodotta nell’Indo Mediterraneo dal gruppo yemenita, che dal 19 novembre a oggi ha compiuto 27 attacchi contro navi mercantili. Lo fa, per dichiarazione stessa dei miliziani di Ansra Allah, braccio armato dell’organizzazione che da oltre otto anni controlla metà dello Yemen, come dimostrazione di solidarietà con Hamas e con i palestinesi della Striscia di Gaza, invasi da Israele dopo l’attacco subito il 7 ottobre.
Il bombardamento
Almeno 15 aerei da combattimento statunitensi e quattro britannici, e navi da guerra statunitensi, tra cui almeno un sottomarino, hanno effettuato gli attacchi intorno alle 2:30 del mattino, ora locale (in Italia erano le 1:30 di venerdì 12 gennaio), obliterando le difese aeree e colpendo i sistemi radar degli yemeniti. Attrezzature anche fornite dall’Iran, che assiste gli Houthi attraverso forniture militari.
Gli obiettivi, secondo la comunicazione ufficiale di CentCom (il comando del Pentagono che per area di responsabilità ha gestito l’attacco), sono stati strutture utilizzate dagli Houthi per immagazzinare e lanciare droni e missili da crociera e balistici, centri di comando e controllo, sistemi radar. In tutto sono stati colpiti oltre 60 target. Non si tratta di creare deterrenza, ma di degradare le capacità di attacco degli Houthi, come spiega Alessio Patalano, professore di War Study al King’s College di Londra. E fonti americane indicano che gli attacchi hanno “depotenziato notevolmente la capacità di fare danni al traffico marittimo globale”.
“Oggi, sotto la mia direzione, le forze militari statunitensi, insieme al Regno Unito e con il supporto di Australia, Bahrein, Canada e Paesi Bassi, hanno condotto con successo attacchi contro una serie di obiettivi nello Yemen utilizzati dai ribelli Houthi per mettere in pericolo la libertà di navigazione in una delle vie d’acqua più vitali del mondo”, ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, in un comunicato. Per la Casa Bianca questa è “la risposta diretta” agli attacchi senza precedenti degli Houthi contro le navi marittime internazionali nel Mar Rosso, “compreso l’uso di missili balistici antinave per la prima volta nella storia”. Passaggio significativo quest’ultimo, che sottolinea le capacità tecniche raggiunte (in questo caso tramite tecnologia cinese fornita dagli iraniani, probabilmente) da coloro che un tempo venivano definiti semplicemente “ribelli yemeniti”.
L’attacco dimostra le capacità operative statunitensi, sia in termini di volontà di azione — un centinaio di missili Tomahawk e oltre venti velivoli impiegati significano un impegno sostanzioso, non un atto simbolico — sia di accuratezza. Stati Uniti e partner hanno dimostrato di essere perfettamente a conoscenza di dettagli di intelligence sofisticata che riguardano la catena di commando e di operazione degli Houthi (e di chi lo rifornisce). La scelta dei bersagli è un messaggio in sé.
La sicurezza collettiva violata
Gli Houthi hanno lanciato più di 80 droni e missili antinave contro le rotte marittime commerciali nel Mar Rosso e della fascia occidentale dell’Indiano, dove le acque oceaniche diventano Mar Arabico. Hanno anche dirottato una nave e fatto prigioniero l’equipaggio a metà novembre. Il gruppo ribelle ha effettuato il più grande attacco martedì con diciotto droni e tre missili che sono stati abbattuti dall’azione difensiva di americani e britannici che agivano sotto l’egida dell’operazione “Prosperity Guardian”, la cui azione di deterrenza non ha funzionato: tutto avveniva meno di una settimana dopo che gli Stati Uniti e una dozzina di alleati avevano lanciato un ultimatum.
Il bombardamento — il primo americano contro gli Houthi dal 2016, annunciato ai partner dal viaggio del segretario di Stato Antony Blinken — era considerato inevitabile: era inconcepibile che un attore (per altro non statuale) potesse mettere a repentaglio un collegamento così cruciale come quello che segna le interconnessioni tra Mediterraneo allargato e Indo Pacifico. È una questione di sicurezza collettiva violata, o meglio dire saltata, basta guardare le tante mappe in cui venivano individuati navi commerciali partite dall’Asia o dal Medio Oriente circumnavigare l’Africa, allungando le rotte di arrivo all’Europa (con costi economici e tempo di consegna maggiori) pur di evitare il corridoio Suez-Bab el Mandeb.
Per Washington, davanti all’assenza di reazione della Cina e della Russia, l’azione marca un senso di responsabilità da potenza per la ricostruzione del bene comune della stabilità regionale e intenzionale. Giovedì, mentre il Consiglio di Sicurezza condannava le azioni degli Houthi, Pechino si è astenuta e l’ambasciatore cinese alle Nazioni Unite, Zhang Jun, spiegava che la Cina si rifiutava di votare (insieme a Russia, Algeria e Mozambico) perché la risoluzione non includeva una richiesta di cessate il fuoco immediato a Gaza, che avrebbe fermato anche gli attacchi degli Houthi. Quella di Pechino è una linea di interesse politico che tende a incolpare i sostenitori di Israele.
Gli Stati Uniti e altri dieci Paesi hanno rilasciato una dichiarazione in cui affermano che gli attacchi di giovedì contro gli Houthi sono stati effettuati “in conformità con il diritto intrinseco di autodifesa individuale e collettiva, in linea con la Carta delle Nazioni Unite”. Dall’Asia, per esempio, c’è sempre stato interesse per certe evoluzioni, anche perché in ballo ci sono grandi temi geoeconomci come il de-risking.
Biden si era riunito con il team di sicurezza nazionale la mattina del 1° gennaio dopo che le cannoniere dei barchini degli Houthi, che avevano attaccato una nave cisterna commerciale di proprietà danese, avevano puntato le armi e aperto il fuoco contro gli elicotteri della Marina statunitense che si trovavano nelle vicinanze. Gli elicotteri statunitensi avevano risposto al fuoco e affondato tre barchini, uccidendo 10 membri del personale Houthi. In quell’incontro, il presidente statunitense aveva dato ordine ai suoi consiglieri di accelerare gli sforzi diplomatici presso le Nazioni Unite per condannare gli Houthi anche per portare allo scoperto chi, come Cina e Russia, avrebbe scelto posizioni differenti.
Il rischio espansione e la reazione
Tra le ragioni che hanno portato all’azione c’è il rischio percepito che l’indebolimento della sicurezza collettiva si potesse espandere oltre l’area in questione. Per esempio, una petroliera operata da una società greca è stata bloccata sempre giovedì nelle acque di davanti all’Oman da unità militari iraniane e diretta verso il porto di Bandar e Jask. Il rischio è che anche lo Stretto di Hormuz — cruciale per i traffici globali di petrolio e gas naturale — finisca oggetto di certe destabilizzazioni. E poi con esso altri chokepoint globali, dove diversi attori statuali e non potrebbero trarre beneficio dal vulnus aperto alla sicurezza comune.
L’Iran potrebbe essere stato coinvolto operativamente anche nella conduzione degli attacchi degli Houthi, che hanno dimostrato come esista una grey-zone in cui ci si può muovere e produrre conseguenze di portata globale. Mercoledì, una nave spia iraniana con base nel Mar Rosso meridionale, la Behshad, ha attraversato lo stretto di Bab el Mandeb, uscendo dall’arena delle operazioni anglo-americane. Con essa anche altre due unità militari di Teheran hanno fatto lo stesso.
Tutto arriva in un momento di massima tensione prodotto dalla guerra a Gaza. Un contesto generale che potrebbe sensibilizzare fronti come quello libanese e siro-iracheno in cui l’Iran ha attive milizie proxy collegate ai Pasdaran. Milizie che, come nel caso degli Houthi dimostrano di avere un’agenda propria, che in molti casi esce dal contro di Teheran.
Anche per questo, è difficile prevedere la reazione, che per buona parte dipenderà pure da quanto efficace è stata l’azione contro le capacità operative degli yemeniti. Gli Houthi potrebbero reagire aumentando gli attacchi nel Mar Rosso e mettere tra gli obiettivi anche alte imbarcazioni (comprese quelle militari americane), oppure attaccando le basi statunitensi nella regione, o ancora lanciare ulteriori missili in direzione di Israele. Contemporaneamente, altre fazioni del cosiddetto Asse della Resistenza (il raggruppamento anti-occidentale e anti-semita creato dall’Iran) potrebbero decidere di attivarsi.
Giovedì, mentre si diffondeva la notizia che gli Stati Uniti e il Regno Unito stavano valutando la possibilità di effettuare attacchi imminenti, il leader degli Houthi, Abdul Malik al Houthi, ha minacciato ritorsioni: “Qualsiasi aggressione americana non rimarrà mai senza una risposta”, ha detto, aggiungendo che “sarà più grande” dell’attacco del 9 gennaio che secondo gli yemeniti avrebbe preso di mira anche le navi statunitensi.
Cosa aspettarsi?
”Gli Houthi pensano di aver poco da perdere, incoraggiati militarmente dalle disposizioni di sostegno iraniane e fiduciosi che gli Stati Uniti non intratterranno una guerra terrestre”, spiega Jonathan Panikoff, direttore della Scowcfroft Middle East Security Initiative dell’Atlantic Council. “Gli Houthi hanno fatto un grave errore di calcolo pensando che gli Stati Uniti non avrebbero risposto con la forza,”, aggiunge la collega Kirsten Fontenrose, magari credevano che la linea rossa sarebbe stata l’uccisione di un americano e che il presidente Biden sarebbe stato riluttante a usare la forza in un anno elettorale. Entrambi sono stati letti male nel contesto attuale.
Per Fontenrose, è improbabile che gli attacchi nello Yemen provochino un’escalation diretta con l’Iran. “Non c’è motivo per l’Iran di sottolineare i suoi legami con il conflitto o gli Houthi in questo frangente”, dal momento che Teheran sta già raggiungendo i suoi obiettivi strategici con il calo della popolarità degli Stati Uniti in tutto il mondo e gli sforzi israeliani vacillanti per migliorare i suoi legami diplomatici nel mondo arabo. L’Iran continuerà a rifornire gli Houthi, osserva Dan Mouton, altro collega dell’Atlantic Council, il che significa che la “capacità della coalizione di interdire il rifornimento iraniano” può determinare “il successo di ulteriori cicli di raid”.
Nota interessante, come valuterà Riad quanto accaduto? Tra i negoziati per porre fine al suo conflitto con gli Houthi, l’Arabia Saudita “è probabile che abbia opinioni contrastanti sullo sciopero”, dice Panikoff. Riad è certamente preoccupata che gli Houthi porranno fine ai negoziati e si vendicheranno direttamente attaccando il suolo saudita”, aggiunge. Ma allo stesso tempo, i sauditi probabilmente riconoscono che 0i negoziati con gli Houthi saranno più impegnativi maggiore è la leva che gli Houthi guadagnano, e la capacità del gruppo di operare nella regione impunemente aumenta certamente la sua leva”.