Da mesi i grandi fondi stanno dirottando i propri investimenti su Nuova Delhi, considerata ormai solida e credibile. Molto più del Dragone, la cui inaffidabilità vista anche nel caso Evergrande, ha gettato alle ortiche anni di crescita e fiducia
Il sorpasso, a dire il vero, è già in corso da diversi mesi. I mercati, gli investitori, persino il più piccolo tra i risparmiatori, hanno voltato le spalle alla Cina, e non certo da ieri. Troppa poca la fiducia instillata dal Dragone e troppo poco convincenti gli appelli per un ritorno dei capitali alla corte della seconda economia globale. E così, chi ne approfitta, è l’India, ormai sempre più nuovo baricentro d’Oriente e vera sfidante degli Stati Uniti.
Persino Wall Street se ne è accorta, come dimostra la transumanza di miliardi di dollari dalle piazze finanziarie cinesi a quelle indiane. “Un cambiamento epocale è in corso nei mercati globali mentre gli investitori prelevano miliardi di dollari dall’economia traballante della Cina, due decenni dopo aver scommesso sul Paese, per dirottarlo in India”, ha scritto Bloomberg. “I giganti di Wall Street come Goldman Sachs e Morgan Stanley sostengono Nuova Delhi come principale destinazione di investimento per il prossimo decennio”.
Un esempio? L’hedge fund Marshall Wace da 62 miliardi di dollari di potenza di fuoco “si sta posizionando sull’India, dando vita alla sua più grande scommessa. Un ramo della Vontobel Holding con sede a Zurigo ha reso il Paese guidato da Narendra Modi la sua principale partecipazione nei mercati emergenti mentre Janus Henderson Group sta esplorando acquisizioni di fondi in India”. Insomma “le persone sono interessate all’India per diverse ragioni: una è semplicemente che non è la Cina”, ha affermato Vikas Pershad, gestore del portafoglio azionario asiatico presso M&G Investments a Singapore. “C’è una vera storia di crescita a lungo termine qui.”
Persino sull’ostico Giappone il Paese degli elefanti sembra aver suscitato un certo appeal. Anche gli investitori al dettaglio giapponesi, che tradizionalmente hanno favorito gli Stati Uniti, si stanno infatti avvicinando a Nuova Delhi. Al punto che cinque dei loro fondi comuni di investimento focalizzati sull’India sono ora tra i primi 20 del Paese per afflussi. Non bisogna mai dimenticare che in India, il premier Modi, eletto nel 2014, ha lanciato un’agenda economica dedicata ad aumentare la produttività investendo nelle infrastrutture del Paese. Questo programma riguarda non solo infrastrutture fisiche e digitali, analogamente all’approccio adottato dalla Cina a partire dagli anni ’90, ma anche infrastrutture finanziarie volte a rafforzare e ampliare il mercato dei capitali nazionale.
Gli sforzi per rilanciare l’economia interna indiana attraverso gli investimenti, di riflesso, hanno portato a un notevole aumento degli investimenti fissi, che sono passati da circa il 30% del Pil all’inizio del suo mandato al 35% di fine 2023. E questo ha sicuramente drenato capitali. In futuro, l’India potrebbe beneficiare in modo simile di riforme interne per attrarre maggiori investimenti nazionali ed esteri. Come la Cina dopo il 2001, anche l’India beneficerà dei cambiamenti nelle catene di fornitura globali. Infatti, stiamo assistendo alla diversificazione e al parziale reshoring delle catene di fornitura che da inizio secolo sono concentrate in Cina, e che ora vengono spostate in India per sfruttare il vasto mercato interno e la fiorente classe media del Paese, in modo simile a quanto avvenuto in passato in Cina.
Non è tutto. Un ulteriore spinta verso questo cambio potrebbe arrivare dall’inclusione dei titoli di Stato indiani in due importanti indici obbligazionari. Non solo l’indice JPMorgan Government Bond Index-Emerging Markets, come annunciato lo scorso settembre: i bond governativi indiani verranno inclusi anche da Bloomberg nel suo Emerging Market Local Currency Government Index a partire dal 31 gennaio 2025. Da giugno, invece, è prevista l’inclusione nell’indice di JP Morgan.
Molti analisti giudicano l’inclusione dei titoli di Stato indiani nei due importanti indici come un’iniezione di fiducia per la crescita del Paese, già in realtà piuttosto sostenuta, oltre a un afflusso di miliardi in investimenti. Tali inclusioni potrebbero portare ad afflussi di miliardi di dollari nel debito pubblico indiano denominato in rupie. Con l’aumento della domanda, i rendimenti obbligazionari scendono, sostenendo di conseguenza la valuta locale. Inoltre, l’India potrebbe intercettare parte degli investimenti esteri che negli ultimi mesi hanno lasciato la Cina.
La quale continua a combattere contro i propri fantasmi. Tra questi, quello di Evergrande. Pechino vuole risolvere la liquidazione del gruppo. Secondo gli analisti, non tarderanno ad emergere le difficoltà legate alla monetizzazione degli asset, visto che Evergrande deve infatti consegnare centinaia di migliaia di case già vendute nella Cina continentale e il governo ha deciso che questi clienti dovranno avere la priorità.
Pechino, insomma, non permetterà che la liquidazione blocchi la realizzazione dei progetti: l’imperativo politico è mantenere le unità onshore operative per rispettare gli impegni di consegna degli immobili. Per gli investitori esteri il problema è che, sebbene una maggioranza significativa degli asset di Evergrande sia interna al Paese, il 26% del suo debito è offshore. E la liquidazione della società madre estera può però avvenire solo attraverso l’estrazione dei flussi di cassa dalle entità onshore, ad esempio attraverso i dividendi, il rimborso dei prestiti agli azionisti o la vendita di azioni.