La riflessione di Riccardo Cristiano sul saggio firmato dal sottosegretario alla cultura in Vaticano, padre Antonio Spadaro, sul Fatto quotidiano riguardo il rapporto tra Bergoglio, la città e il senso profondo delle periferie
Quando penso all’importanza che certo tradizionalismo ha trovato in tanti pensieri mi ricordo del Vangelo secondo Marco: “Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione”. Ogni tradizionalismo assoluto finisce col temere la storia, tanto che in ambienti opposti a quelli di cui qui parliamo si ricorse al trattino per congiungere i termini marxismo e leninismo; hai visto mai che qualcuno pensasse che ci fosse uno sviluppo, un movimento pur minimo a differenziare il primo e il secondo.
È anche per questo mio vizio che ho trovato subito uno stimolo ad interessarmi a questo testo nelle parole con cui il sottosegretario alla cultura in Vaticano, padre Antonio Spadaro, apre il suo saggio su “Il papa e l’anti-città”, una sua relazione al riguardo del rapporto tra Bergoglio e la città pronunciata al Macro di Roma, una cui sintesi appare oggi su il Fatto Quotidiano. Il suo incipit in realtà è semplice, senza significati nascosti o implicazioni di sorta, ma a me ha detto che la Chiesa si muove, come è ovvio che sia: “Jorge Mario Bergoglio è il primo papa urbano, cioè nato in città, dopo Pio XII, il quale però era nato in una Roma che nel 1876 non era certo una megalopoli”. Eppur si muove, dunque. Tanto che è ben noto che le lezioni più belle su queste megalopoli ormai imminenti le abbia pronunciate, da arcivescovo di Milano, il non metropolitano Giovanni Battista Montini. Segno che il movimento della terra, e di ciò che con essa si muove, lo possiamo vedere anche se non è iscritto nella nostra carta d’identità.
Ma il testo di padre Antonio Spadaro ci porta subito ben oltre queste polemiche abbastanza spicciole, quando ricorda che Bergoglio, respingendo il balconeàr, cioè il guardare la vita dal balcone, ha parlato del “sentirsi incalzati da un Dio che già vive nella città, vitalmente mescolato con tutti e con tutto”. Questo è il primo punto, ma già decisivo: vitalmente mescolato con tutti e con tutto. Il discorso dunque è importantissimo!
Già da arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio parlava di un cristianesimo che “è immerso nello shaker dell’ibridrazione culturale e ne subisce le influenze e l’impatto”. Per me, personalmente, ogni volta che si arriva a toccare il tema dell’ibrido, le orecchie diventano antenne, perché vuol dire che stiamo entrando nel mondo, nella storia, uscendo dalla nostalgia della preistoria. È uno dei motivi che mi ha fatto sempre sentire un rapporto profondo tra il pensiero di Jorge Mario Bergoglio e quello del gesuita che mi è sempre stato più caro, Paolo Dall’Oglio, che sull’ibrido e le sue dinamiche ha scritto pagine che da allora percepisco come luminose.
Ma restiamo al testo di padre Spadaro, perché lui presenta e coglie il punto bergogliano più stimolante, scrivendo: “Immersione e interazione sono le due chiavi fondamentali dell’immaginario religioso cristiano che forse non è più definibile come ‘sacro’ in quanto separato dal ‘profano’, ma immerso e interattivo. Quel che chiede Bergoglio è di riconnetterci allo specifico cristiano per riuscire a dialogare non solamente con una cultura pagana, di cui si possono discernere i valori con una certa chiarezza, ma anche con una cultura ibrida e molteplice come quella che oggi è in gestazione, che richiede più discernimento”. Siamo a un passaggio di valenza evidente. Di qui si passa a quel bivio tra spazio e tempo così importante in Francesco: gestire processi (il tempo ) è più importante di gestire spazi. Ecco le parole che decidono e incidono sulla nostra percezione della realtà che a volte ci sfugge: ‘la città dell’uomo è il luogo dei processi e delle opposizioni polari e viventi’”. Le opposizioni polari sono un centro fondamentale del pensiero del papa, ispirato in questo dall’opera di Romano Guardini.
Proseguendo nella lettura colpisce, ma forse non dovrebbe, scoprire che il papa abbia citato Italo Calvino: “le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure”. Non è forse così? La città può creare vincolo, inclusione, coinvolgimento, ma può anche produrre l’anonimato, l’esclusione. Spiega in modo estremamente coinvolgente padre Spadaro: “Effettivamente Bergoglio parla di città, ma anche di “anti-città”, che sono Babele e Babilonia: la prima sogno interrotto, città autosufficiente che tocca il cielo, e la seconda l’anti-città consolidata che si estende sulla terra”. L’anti-città che ci divora.
Visitando città si può scoprire che una nostra idea di città fatta di centro e periferie può essere solo in parte veritiera: ci sono molte città odierne, megalopoli, che hanno più centri. Recentemente sono stato a Bangkok e non ho capito se il suo centro sia piazza Nana, la molto lontana piazza della stazione ferroviaria, o quella altrettanto distante che conduce al palazzo reale. Forse ho capito poco di questa città, ma di solito le periferie sono quasi sempre i luoghi di quelle paure di cui ha parlato Calvino, perché dentro di noi sono quelle immagini di anti-città fatte di esclusione, dove l’uomo scarto è spazzatura. Certo, assolutizzare la dinamica centro-periferia è una semplificazione di questo fatto urbano. Ho visto città dove gli abbienti si trasferiscono in periferie lontanissime, e i poveri si accatastano in centro, proprio come vedeva già Paolo VI nei suoi tempi milanesi. Ecco allora che è molto più efficace questa catalogazione di città e anti-città, di cui ci parla questo saggio: “L’anti-città è una conformazione urbana in cui migliaia di individui, famiglie e gruppi sono messi in condizione di costruire il loro spazio di vita, ma senza alcun disegno condiviso, senza disporre di un progetto o di una visione di città, né di comunità”. Solo i rapporti interpersonali, le reti e l’appartenenza, possono diffondere luce in “un ambiente a prima vista invivibile”. Ecco che si capisce molto meglio l’essere popolo, che significa “abitare insieme lo spazio”. Seguono parole da tenere ben presenti: “La città deve essere casa comune, ed è necessario stabilire un rapporto tra la comunità e la forma dello spazio che la comunità abita e che deve sentire la città come orizzonte comune della vita quotidiana”.
Il discorso su centro e periferia è più ampio, i riferimenti sono significativi e non soltanto spaziali ma anche semantici, perché il primo richiama la visione a 360 gradi, il secondo la distanza, la parzialità. Dunque la periferia è un punto di vista accurato. È per questo che la realtà si vede meglio dalle periferie. È uno snodo del testo su un tema centrale nel magistero di Francesco: andrebbe letto integralmente ma mi sembra indispensabile riprodurre qui almeno questo passaggio bergogliano: “La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro. Compresa la realtà di una persona, la periferia esistenziale, o la realtà del suo pensiero: tu puoi avere un pensiero molto strutturato, ma quando ti confronti con qualcuno che non la pensa come te, in qualche modo devi cercare ragioni per sostenere questo tuo pensiero: comincia il dibattito, e la periferia del pensiero dell’altro ti arricchisce”. Insomma, “per capire davvero la realtà – come scrive Francesco – dobbiamo spostarci dalla posizione centrale di calma e tranquillità e dirigerci verso la zona periferica. Per capire, ci dobbiamo scollocare”.