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La ricerca di mediazioni guida il quarto mese di guerra a Gaza. Conversazione con Dentice

A quattro mesi dall’attacco di Hamas, la mediazione appare ancora complicata e mentre il piano diplomatico potrebbe restare fermo, sul campo Israele spinge a sud, anche verso il Corridoio di Philadelphi. Per Dentice, i problemi riguardano anche gli equilibri interni a Israele e nella governance palestinese

“Siamo tutti scettici sul fatto che si possa arrivare a un punto nei prossimi giorni, ma speriamo avvenga nelle prossime due settimane”, dice un funzionario statunitense alla NBC News mentre commenta come “generalmente positiva” la risposta di Hamas alla mediazione che Stati Uniti, Egitto, Qatar e altri Paesi stanno cercando di trovare tra il gruppo armato e Israele. Che però storce il naso alla proposta di accordo per ora sul tavolo  – e lì il cruccio, secondo le fonti, è se mantenere aperto uno spiraglio di dialogo oppure farlo saltare quel tavolo.

Molte delle proposte avanzate da Hamas per raggiungere una tregua e il rilascio degli ostaggi catturati durante l’attentato del 7 ottobre – che ha dato il via alle ostilità, e alla risposta violentissima di Israele – sono considerate “inaccettabili”. Per lo Yedioth Ahronoth, media israeliano solitamente ben informato, il gabinetto di sicurezza allargato si riunirà per valutazioni domani sera, ma il rilascio di oltre un migliaio di detenuti palestinesi (diversi accusati di crimini contro gli israeliani e compresi quelli condannati all’ergastolo per fatti di sangue) e un cessate il fuoco di quattro mesi e mezzo, nonché il completo ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia, sembra troppo per Israele. Almeno per adesso.

Secondo Giuseppe Dentice, responsabile del Mena Desk del CeSI, le trattative sono testimonianza delle difficoltà dei mediatori nel far passare decisioni tra le parti, che vicendevolmente alzano la posta in palio, come per esempio ha fatto Hamas, che prima ha accettato una tregua per subito dopo chiudere con il ritiro delle truppe da Gaza una sorta di cessate il fuoco permanente. “Questo racconta di come il gruppo, alla stregua di Israele, stiano usando anche il piano informativo e non solo per il supporto mediatico, ma anche per inviare messaggi alle rispettive opinioni pubbliche interne e internazionali”.

L’idea di una tregua piuttosto lunga per poi aprire a un cessate il fuoco permanente è la base di dialogo che può avere potenziali sviluppi, ma il ruolo complesso riguarda l’evitare scatti che possano irrigidire la trattativa. Da qui, con il piano diplomatico incastrato nella trattativa – al rialzo – si apre il terreno militare (perché fondamentalmente le guerre si combattono sul campo, che spesso detta tempi e modi della diplomazia, la quale sovente interviene quando le armi non riescono più a portare risultati).

“L’offensiva militare israeliana si sta espandendo verso sud, e presumibilmente potrebbe arrivare fino al valico di Rafah, ma la preoccupazione araba e soprattutto egiziana è che Israele voglia spingersi fino al corridoio di Philadelphi (una striscia di terra in territorio egiziano che fa da cuscinetto tra Israele ed Egitto, ndr)”, spiega Dentice. “Il timore di fatto è che Israele possa spingere tutti i profughi creati con l’invasione di Gaza in quei 14 chilometri di spazio – continua – creando una dislocazione che da sempre viene considerata uno scenario problematico, che complicherebbe innanzitutto i rapporti col Cairo, il quale non a caso ha minacciato la rottura delle relazioni diplomatiche e, in extrema ratio, la rottura del trattato di pace, anche come bilanciamento alle istanze filo-palestinese di una popolazione già insofferente per la crisi economica”.

La tensione al confine egiziano è una (relativa) novità di questo quarto mese di guerra. Con il bilancio dei morti che sale a quasi 28mila; le rotte indo-mediterranee del Mar Rosso sono state disarticolate dagli attacchi Houthi contro i traffici commerciali riconducibili a Israele; dal confine libanese Hezbollah ha lanciato oltre 500 missili sul territorio di Israele, che ha risposto con oltre 3400 obiettivi della milizia filo-iraniana colpiti; in Iraq e Siria i gruppi armati sciiti connessi ai Pasdaran hanno colpito con costanza gli obiettivi americani – anche se dopo la vicenda della Tower 22 queste azioni sono state rallentate con il timore che la guerra si allarghi e si crei uno scenario imprevedibile.

Per Dentice, il contesto apre a uno scenario collegato alla crisi di Gaza: l’effettiva capacità di controllo che l’Iran ha sui proxy creati. Capacità che per l’analista del CeSI è diminuita da quando (il 3 gennaio 2020) gli Stati Uniti hanno eliminato Qassem Soleimani, generale che guidava la Quds Force, unità d’élite dei Pasdaran, e che soprattutto era l’architetto della creazione del network di milizie connesse a Teheran: “Con la sua assenza  i proxy hanno iniziato a muoversi in modo più indipendente, seguendo agende sempre più libere seppure intersecate con quella iraniana, e questo è importante quando andiamo a definire la capacità dell’Iran nel plasmare gli equilibri della regione”.

Dal punto di vista interno, le posizioni p0litiche, innanzitutto in Israele, come influenzano il corso della situazione? “Il fronte anti-Netanayahu si sta estendendo e sta diventando sempre più forte, e sembra che all’interno del Paese stia maturando una volontà di cambio di governo, che sebbene avverrebbe a guerra in corso potrebbe essere ineluttabile se il primo ministro continua ad appiattirsi sulle posizioni dei lati più radicali del suo esecutivo”, risponde Dentice. Perché? “Perché quelle posizioni sono problematiche per l’immagine internazionale di Israele”. Ci sono alternative? “Questo è il tema: il tentativo delle opposizione è molto difficile sia perché i numeri parlamentari sono a favore dell’attuale maggioranza, sia perché non c’è al momento un’alternativa credibile”, risponde Dentice.

E tra i palestinesi? “È evidente che lì problema sia la governance delle istituzioni palestinesi, e occorrerà porselo prima o poi, e non possiamo far finta che Hamas non esista, perché ha goduto fino a prima della guerra degli spazi possibili e con il conflitto ha aumentato parte della sua legittimazione popolare. Dunque, in uno scenario post-bellico, si dovrà aprire a una fase di programmazione, di dialogo intra-palestinese e servirà un appoggio della Comunità internazionale per assistere lo sviluppo della futura leadership”.


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