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Laos, un viaggio bellissimo tra gli orrori del Novecento (che torna)

Visitare un Paese povero quanto bello come il Laos in questi tempi di guerre e sopraffazioni non è una fuga dal nostro presente, dal nostro tempo, ma un viaggio di certo affascinante ma che può anche aiutarci a immaginare quel che il nostro presente produrrà, e a renderci conto di quanto non sia auspicabile un ritorno del Novecento. Il reportage di Riccardo Cristiano

Visitare il Laos oggi è uno dei modi migliori per vedere il volto del Novecento, che appare oltre che il nostro passato anche il nostro possibile futuro. Luang Prabang, piccolo centro di 20mila abitanti ma antica capitale del Laos, è tornata all’attenzione del mondo da quando è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Questo nome vuol dire “ immagine del Buddha regale”, ed è facile rendersi conto che proprio templi, monachesimo e cultura buddista siano le attrattive che premiano questa cittadina di poche strade e una collina, un sito buddista diffuso, con statue e steli che accompagnano fino alla vetta, dove si gode di una vista spettacolare sul cuore pulsante di tutto il Paese, il fiume Mekong, il fiume che lungo il suo corso di quasi 5mila kilometri dà di che vivere a circa 60 milioni di persone tra Cina, Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam.

Il principale tempio buddista di Luang Prabang

Il viale centrale di Luang Prabang è costeggiato da costruzioni in stile coloniale, sulle parallele invece si apprezzano abitazioni in stile orientale, con i classici tetti a pagoda. Ma ciò che sorprende, più che l’incontro dei due stili, che si accavallano benissimo in queste abitazioni comunque raramente di più di due o tre piani, è la proibizione del traffico sul corso centrale per quasi tutta la giornata. Qui infatti c’è l’accesso al grande tempio centrale, al Palazzo reale e soprattutto la fa ancora da padrona il mercatino serale, che dalle cinque della sera fino a notte diffonde l’odore dei cibi tradizionali, i prodotti di un artigianato di qualità sebbene abbastanza povero, e ricami delle varie tradizioni dei popoli della piana, delle colline e delle montagne.

Il mercato alimentare di Luang Prabang

Il piccolo museo etnografico ci racconta la storia e anche le difficoltà del rapporto tra il Laos e il mondo globalizzato. L’esempio che spicca in questo museo etnografico di qualità è quello degli Oma, il gruppo etnico delle alture del nord che ha tentato di far rispettare i propri diritti da Max Mara quando ha scoperto che la grande casa di abbigliamento ha commercializzato abiti per donna impreziositi dai loro ricami tradizionali, vecchi di secoli, senza neanche informarli. Max Mara non risulta che abbia neanche risposto, ma loro si appellano all’Onu, alle previsioni sulla proprietà intellettuale. Quei ricami sono simboli antichi di una cultura che richiede rispetto anche ai giganti del mondo globale. Senza avere risposta a tutt’oggi, probabilmente. Ma il problema emerge pian piano grazie a molte attenzioni.

Non c’è solo Max Mara a creare difficoltà ai laotiani, una popolazione che sopravvive con un reddito medio che si aggira sui trenta dollari mensili, dollaro più o dollaro meno. Una vita spartana, per un popolo che sa che la sua fonte primaria per l’oggi e probabilmente il domani si chiama Mekong. Anche per muoversi il Mekong è l’unica strada ben transitabile in tutto il Paese. Da Luang Prabang non si vedono ponti, ma tanti ferry-boat che portano da un lato all’altro del fiume, e poi imbarcazioni di ogni genere, numero e caso, per chiunque viva di turismo, pesca e agricoltura, le principali risorse di un Paese non certo industrializzato.

Il Mekong e l’effetto delle dighe

Ma il Mekong, che sta al Laos come il Nilo all’Egitto, ma con una varietà di pesci impensabile per il turista a corte di cognizioni al riguardo, è minacciato anch’esso dai nuovi poteri, nel caso di specie la Cina. La Cina infatti detiene gran parte del debito di questo Paese di sei milioni di anime.

Così negli anni trascorsi la Cina ha pensato di offrire uno scambio: io mi compro la tua società idroelettrica, tu ti liberi di parte del debito che hai contratto con me. Ma l’investimento cinese aveva una finalità: le dighe. Grandi dighe di cui parlano tutti a Luang Prabang, finalizzate alla produzione di quell’energia elettrica di cui la Cina ha grande sete, ma che assetano il corso di un Mekong che scende di livello ogni anno, mettendo a rischio il futuro.

Per spostarsi in Laos cento chilometri si possono fare soltanto lungo il Mekong, quasi impensabile sulle sue strade dissestate, a dir poco. Ma oltre a questo c’è la pesca, ci sono le risaie, le diverse coltivazioni, che per una percentuale altissima di laotiani sono la vita, l’unica possibile. Difficile immaginare un’industrializzazione dell’agricolo Laos, o un’urbanizzazione delle sue popolazioni ancora legate agli ambienti di origine, in collina o in montagna. Come anche per chi vive nelle pianure. Luang Prabang con il suo fascino di piccolo centro quieto e dallo sviluppo turistico incerto, sebbene presente, lo conferma, figurarsi la poco attraente capitale inventata nel recente passato, Ventiane.

Ma i cinesi non sono solo nella business delle centrali elettriche, anche qui è voce diffusa che l’economia sia nelle loro mani. E chi manda i ragazzi a studiare il cinese non scarseggia. Inglese e francese sembrano considerate lingue del passato, il futuro parla la lingua del dragone.
Ma gli sguardi poco affettuosi verso il neo colonialismo cinese sono poca e piccola cosa rispetto alla memoria del colonialismo più detestato, non tanto quello francese, ma quello americano.

Cerimonia del Tak Bat

Girando per tanti mercatini di Luang Prabang e dintorni- magari dopo aver assistito alla cerimonia delle 6 mattino, il Tak Bat, quando un gran numero di fedeli si reca al grande tempio dove i 280 monaci si radunano per iniziare la loro giornata accettando le offerte alimentari e di denaro per cominciare con qualcosa la loro giornata, offrendo in cambio una benedizione (senza richiedere ai fedeli la prova del rispetto dei cinque precetti basilari del buddismo)- si trovano sempre, invariabilmente delle bancarelle di che offrono della strana chincaglieria “per vivere”. Si tratta di stoviglie, braccialetti, collanine e altri oggetti di semplice utilità per la vita, ricavati dalla scocca delle bombe che gli americani precipitarono a milioni sul Paese, durante l’offensiva del Tet o nei tempi immediatamente precedenti o successivi. Trovandosi invasi da milioni di bombe ormai esauste i laotiani hanno pensato di usarne il rivestimento metallico per farne strumenti di vita e piacere invece che di morte. Siamo in un contesto profondamente buddista ma che offre questo raro esempio di materializzazione delle parole del profeta Isaia: “trasformeranno le loro spade in vomeri”.
Infatti al prezzo contenuto del manufatto si fa sapere che è aggiunto solo un piccolo contributo per il recupero delle aree più in crisi, come quelle dove lo sminamento non è ancora stato effettuato o concluso e chi ci si avventurasse ancora mezzo secolo dopo rischierebbe la vita.

Erano i tempi della guerra che doveva impedire la conquista dell’Indocina da parte dei comunisti, ma che i laotiani ancora oggi ricordano come l’ultimo incubo che ancora non passa e che ha portato via un oceano di vite. Dal 1964 al 1973, infatti, l’aviazione militare statunitense ha sganciato 270 milioni di bombe a grappolo sul Laos, in media una ogni otto minuti. Da quando tutto cominciò, con il sostegno del Nord Vietnam ai comunisti laotiani, il famoso sentiero Ho Chi Min, è stato sganciato sul Laos un numero di bombe complessivo che molte fonti indicano come paragonabile a quello di tutte le bombe sganciate sull’Europa durante la seconda guerra mondiale. Il ricordo di quei tempi per noi è lontano, un pensiero fugace, la memoria di quando, per chi ha la mia età, si era bambini, o ragazzi. Fatti quasi rimossi, ma che ancora oggi legano il Laos alla forza della memoria e del suo peso per l’oggi.

Sulle anse quiete del Mekong i colori intrisi di umidità equatoriale confondono i confini delle colline vicine a Luna Prabang e i monti più dietro, le cui  pallide si confondono con quelle del cielo. Ma questo paesaggio fiabesco, intriso del silenzio delle strade quasi impercorribili della campagna laotiana, fa pensare che mezzo secolo fa, ai tempi dell’offensiva del Tet, tutto fosse assai simile a com’è oggi, al di là dei nuovi ritrovi turistici tutti raccolti nel centro minuto di Luang Prabang. Questa sensazione di passato che persiste è confermata dal modo con cui i laotiani vivono quel lontano passato, le bombe di Lindon B. Johnson, come fosse ancora il presente. Il tempo quasi non passa in questo Paese, eppure la guerra è lontana, ma i colori delle colline imperscrutabili che accompagnano il lento incedere del Mekong rimangono testimoni di una vita che avrebbe bisogno di crescita, almeno del livello del fiume, il Mekong, fonte e garanzia di vita, benché ora le dighe mettano ansia, forse più delle bombe di tanti anni fa.

Visitare un Paese povero quanto bello come il Laos in questi tempi di guerre e sopraffazioni non è una fuga dal nostro presente, dal nostro tempo, ma un viaggio di certo affascinante ma che può anche aiutarci a immaginare quel che il nostro presente produrrà, e a renderci conto di quanto non sia auspicabile un ritorno del Novecento.

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