Nessuno può dettare la linea a uno Stato indipendente che è sempre esposto a credibili minacce di estinzione. Tuttavia, proprio per questo, il governo di Netanyahu deve prendere sul serio le critiche, a cominciare da quelle che nascono dall’interno, e delineare alternative proporzionate all’annientamento fisico dei palestinesi di Gaza (e dintorni). Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza Politica
Fa il suo dovere di diplomatico nominato dal governo di Israele, l’ambasciatore in Vaticano. Gli riconosciamo la facoltà di replicare con l’aggettivo regrettable alla definizione “sproporzionata” data dal Cardinale Parolin alla risposta dello Stato d’Israele al movimento terroristico Hamas. Ma, sbaglia. Un conto è perseguire l’obiettivo della distruzione di Hamas, a mio parere legittimo, ma sostanzialmente impossibile; un conto molto diverso è mirare a conseguire quell’obiettivo attraverso azioni che pongano a rischio la sopravvivenza dei palestinesi in tutta la striscia di Gaza. Con buona pace (quanto malamente sgraziate sono queste due parole!) dell’ambasciatore israeliano, quella degenerazione di risposta merita integralmente l’aggettivo sproporzionato. E non credo che Parolin debba rimpiangere quell’aggettivo né pentirsi della sua valutazione purché sia consapevole di avere tagliato i ponti di qualsiasi ruolo vaticano in una, peraltro già improponibile, mediazione.
Invece di ribattere colpo su colpo, l’ambasciatore di Israele, e con lui il primo ministro Netanyahu, dovrebbero cercare di capire che i comportamenti militari del governo israeliano stanno alienando, non le simpatie occidentali nei loro confronti, purtroppo, mai particolarmente elevate, ma il sostegno di larghi settori di opinione pubblica. Essendo una società aperta, all’interno dello Stato d’Israele esiste una opposizione laica, certamente minoritaria che già ritiene esagerata, per l’appunto sproporzionata, la risposta del governo, sicuramente controproducente rispetto ai fini di corto periodo e alla sicurezza dello Stato nel lungo periodo. Le guerre possono essere vinte e perse anche grazie alle opinioni pubbliche. Le paci possono essere ottenute e salvaguardate da quelle opinioni pubbliche (ma, sicuramente, anche da una indefinita dose di risposte armate credibili).
Freddamente e oggettivamente, i governanti israeliani attuali dovrebbero sapere che, non solo nel mondo dei Paesi in via di sviluppo, dei Brics e degli aspiranti tali, ma anche in Occidente, già in partenza non godono di una grande riserva di apprezzamento. Molti continuano ad esplorare le radici profonde e nodose dell’antisemitismo, molti sottolineano piuttosto il loro antisionismo che, correttamente inteso come opposizione e rifiuto dell’esistenza di uno Stato ebraico, è anche peggio. Rimane chiaro, netto, visibile il fenomeno, attuale, ma che si estende, di minore sostegno, quando non anche di aperta critica ai comportamenti delle Forze Armate e del governo di Israele. Regrettable? Alcune critiche sono da deplorare, altre da respingere, altre da comprendere nella loro portata e negli obiettivi che suggeriscono.
Nessuno può dettare la linea a uno Stato indipendente che è sempre esposto a credibili minacce di estinzione. Tuttavia, proprio per questo, il governo di Netanyahu deve prendere sul serio le critiche, a cominciare da quelle che nascono dall’interno, e delineare alternative proporzionate all’annientamento fisico dei palestinesi di Gaza (e dintorni). C’è un tempo per distruggere e c’è un tempo per (ri)costruire.