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I beni russi fanno gola ma niente azzardi. Pelanda spiega pro e contro

Arrivare a una monetizzazione degli asset sequestrati al Cremlino potrebbe rivelarsi un domani un boomerang e fare persino il gioco della Cina. Molto meglio continuare a tenere Mosca sulla graticola. Non è vero che la Cina ha voltato le spalle a Putin, il punto è che Pechino non può permettersi nuove sanzioni. Colloquio con l’economista, grande esperto di geopolitica

Forse è davvero troppo presto per capire se e come il G7 a guida italiana riuscirà a imprimere un’accelerazione decisiva alla monetizzazione degli asset sequestrati alla Russia. Tra poche ore, una riunione virtuale tra i grandi della Terra, alzerà ufficialmente il velo sulla presidenza italiana del G7. Ma, soprattutto, metterà finalmente sul tavolo, avviando le negoziazioni, il dossier sulla possibile messa a reddito di 300 miliardi di dollari confiscati alla Banca centrale russa. Eppure, dice un economista esperto di geopolitica applicata alla finanza come Carlo Pelanda, il gioco non è così facile. Poco male, visto che anche solo minacciare Mosca di una messa a reddito dei beni, potrebbe avere il suo effetto emotivo.

L’ORA DELLA PRUDENZA

“Facciamo una premessa. La presidenza del G7, questa volta italiana, ha il potere di indirizzare l’agenda, non certo decisionale. Questo per dire che qualunque aspettativa di una svolta sulla questione dei beni, va inquadrata sotto questo profilo”, mette subito in chiaro Pelanda. “Certamente c’è una pressione dei Paesi, soprattutto nordici, per un sostegno incondizionato o quasi all’Ucraina, quasi un atto dovuto alle alleanze delle democrazie. Non è quindi che è grazie al governo italiano che il G7 sosterrà Kyiv, ma c’è una chiara e definita spinta da parte di molti Paesi europei”.

Pelanda entra poi nel merito della questione degli asset sequestrati. “Credo sia corretto procedere nel solco della prudenza, tutto potrebbe essere percepito come un furto ai danni della Russia. Esistono pro e contro, ma quello che bisogna capire bene è che c’è un problema legato al rendere difficili le relazioni con la Russia una volta che Putin non ci sarà più. Voglio dire, un nuovo regime, qualora ce ne fosse uno dopo quello attuale, potrebbe un domani reclamare questi soldi, parliamo di centinaia di miliardi. E allora sarebbe difficile portare Mosca di nuovo dalla propria parte, in funzione anticinese. Il tema, insomma, è geopolitico, ma non deve essere sottovalutato. E questo nonostante alle democrazie occidentali, i cui bilanci sono sotto stress, quegli asset facciano gola”.

Non è tutto. “Dei segnali recenti mostrano come lo stesso Putin stia cercando di aprire dei canali diplomatici con l’Occidente e questi beni potrebbero essere merce di scambio in questo senso. Per questo, la monetizzazione dei beni alla fine è meglio che rimanga più una minaccia che una reale volontà dei Paesi del G7. E questo, lo ripeto, perché con la Russia di Putin o del dopo Putin, bisognerà in qualche modo dialogare, proprio in funzione del contrasto alla Cina”.

LA CINA HA PAURA?

Già, la Cina. Alleata di ferro dell’ex Urss, oppure no? Pelanda anche qui fa chiarezza. “Non è vero che Pechino sta voltando le spalle a Mosca, semplicemente non può sostenere un confronto troppo duro con gli Stati Uniti, non può permettersi nuove sanzioni insomma. E questo perché l’economia cinese è a pezzi, è in piena implosione economica. E di certo non può incassare nuove sanzioni sulle sue aziende che mantengono rapporti con la Russia. Ora come ora ci sono altre priorità nel Dragone”.

Va bene, ma che succede se alle prossime elezioni americane vincesse Donald Trump? Fine degli aiuti all’Ucraina? “Assolutamente no, quello di Trump è puro e semplice linguaggio elettorale, nulla più. Pensiamo all’ultimo periodo della sua presidenza, ci fu un rilancio delle missioni Nato e non certo un riavvicinamento alla Russia. Non credo, onestamente, che Trump possa abbandonare l’Ucraina, se non altro perché ci sono cento persone alla Casa Bianca che partecipano a decisioni di questo calibro”.



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