La resa di Bruxelles è meno singolare di quella dei governi nazionali, i quali si sono precipitati a dare ragione agli agricoltori che li criticavano, salvo ricorrere alla solita manfrina di scaricare il barile sul tavolo dell’Unione. Il commento di Giuliano Cazzola
A giudicare dalla capacità di resistenza delle istituzioni europee durante la jacquerie dei trattori, c’è da temere il peggio se e quando, al posto di quelle enormi macchine agricole, vedremo sfilare i panzer di Vladimir Putin. Non è stata una bella pagina di storia e nemmeno di cronaca la resa senza condizioni di Bruxelles alle rivendicazioni degli agricoltori, obbedendo soltanto alla violenza e alla determinazione con cui venivano poste, mettendo a soqquadro la circolazione nelle città e nelle grandi arterie autostradali, fino a invadere Bruxelles e assediare i palazzi del governo dell’Unione, senza rinunciare a qualche atto di vandalismo per rinforzare la protesta.
Ma la resa di Bruxelles è meno singolare di quella dei governi nazionali, i quali si sono precipitati a dare ragione agli agricoltori che li criticavano, salvo ricorrere alla solita manfrina di scaricare il barile sul tavolo dell’Unione. Harry Truman, un grande presidente americano sottovalutato dalla storia, soleva dire che il tavolo del presidente è il punto in cui finisce lo scarico del barile. Nel caso dell’Europa, le decisioni finali vengono prese dal Consiglio dei capi di Stato e di governo, ovvero dalle stesse persone, ciascuna delle quali, al rientro in patria, si dimentica di ciò che ha votato a Bruxelles (“Non c’ero e se c’ero dormivo”).
Ma davvero l’agricoltura è divenuta la cenerentola delle politiche dell’Unione? È una domanda che va posta, perché la maggior parte delle risorse destinate al settore provengono dai bilanci comunitari. Bene, ricordiamo insieme qualche numero: in agricoltura è occupato il 2 per cento della popolazione con un Pil di circa il 3 per cento, ma al settore, l’Unione europea ha stanziato nell’ultimo bilancio il 30 per cento delle risorse, ovvero 400 miliardi su un totale di 1.200.
Certo, il comparto ha subìto le conseguenze di un bel po’ di quella disinvoltura con cui l’Unione europea si è infilata nella transizione ecologica con l’indicazione di scadenze fitte molto ravvicinate e poco realistiche, dichiarando una guerra agli idrocarburi (e quindi anche ai fitofarmaci e ai fertilizzanti) che ci espone alla concorrenza dei Paesi che non si pongono il problema che angoscia da noi l’ecologismo militante. Auguriamoci almeno che gli “ecovandali” di “Ultima generazione”, anziché deturpare le opere d’arte, comincino a prendere di mira le stalle e le porcilaie, colorando di vernice le mucche e i maiali.
In ogni caso, che ci sia nell’aria una revisione dell’ecologismo talebano lo si è visto dall’incarico conferito a Mario Draghi di approfondire come rendere compatibile lo sviluppo della green economy con la tenuta del sistema produttivo e dell’occupazione. L’altro segnale importante è arrivato dal vertice di Doha, dove, dopo una lunga discussione tra interessi diversi e contrastanti, è stata adottata una strategia più realistica nell’utilizzo delle fonti energetiche alternative rispetto a quelle fossili.
Tutto ciò premesso, il settore dell’agricoltura che si è sollevato in queste settimane e che senza averla è riuscito a farsi dare ragione appartiene a un mondo in estinzione. Quella del protezionismo, dei dazi, dei prezzi garantiti, del no alla globalizzazione, del rifiuto opportunistico all’apporto della scienza nell’alimentazione, della lotta alle multinazionali, non è un’alternativa, non solo perché sarebbe destinata alla sconfitta, ma danneggerebbe persino la nostra economia agricola. Il protezionismo è un virus contagioso che si diffonde rapidamente sui mercati depotenziandoli. L’invasione di trattori ha indotto la Commissione a mettere in standby l’accordo di libero scambio con il Marcosur (il blocco dei Paesi sudamericani) e ha rivisto i rapporti con l’Ucraina per le forniture di cereali (proprio nel momento in cui ha sbollato lo stanziamento di 50 miliardi, superando il veto ungherese).
Peraltro, l’Italia (pur con tutta la retorica del made in Italy) non è in grado di provvedere al proprio fabbisogno per la natura del territorio, a meno di non ricorrere alle politiche agrarie del fascismo che imponevano coltivazioni di grano persino in collina, con costi altissimi e scarsa qualità. L’Italia è un Paese esportatore anche in agricoltura. Il peso del commercio alimentare sulle esportazioni è cresciuto da noi fino all’8,4 per cento nel 2022. Inoltre, su ben 200 prodotti per cui è prevista la tutela automatica sui grandi mercati asiatici, 26 sono italiani.
Bisogna prendere atto che solo l’investimento nelle nuove tecnologie può garantire il fabbisogno alimentare di un pianeta che si avvia in alcuni decenni a ospitare 10 miliardi di anime. Non si risponde, con buona pace del ministro ‘’cognato’’, a queste sfide con la produzione a chilometri zero. Per l’agricoltura tradizionale europea e il made in Italy rimangono soltanto mercati di nicchia, altamente remunerativi. Per combattere la fame nel mondo e mantenere livelli di produzione sempre più adeguati, bisogna accettare le sfide della scienza applicata alla produzione agroalimentare: dagli Ogm alla carne coltivata.
Appena da noi si è parlato di sperimentare la carne sintetica, il governo ha messo le mani avanti con un no pregiudiziale, con la medesima reazione di quanti – nei primi anni del cinema – scappavano dalla sala quando sullo schermo passava un treno. Ma occorre fare i conti con la fame nel mondo. Nell’ultimo rapporto delle Agenzie delle Nazioni Unite e di altre istituzioni dell’alimentazione, le proiezioni indicano che nel 2030 quasi 670 milioni di persone nel mondo dovranno ancora affrontare la fame. Un numero simile a quello del 2015, quando fu lanciato l’obiettivo delle Nazioni Unite di porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione.
A causa del rapido incremento della domanda di alimenti a livello mondiale, si stima che la loro produzione dovrà essere più che raddoppiata entro il 2050. Circa il 70per cento delle persone denutrite dipende, in modo diretto o indiretto, dall’agricoltura per la propria sopravvivenza. Un settore che – a livello economico – rappresenta storicamente la prima fase di quell’accumulazione che può innestare lo sviluppo dei Paesi oppressi dalla povertà, alla malnutrizione, dalle malattie e dalla siccità.
Il cambiamento climatico mette in discussione un modello dell’agricoltura e dell’alimentazione. Se la terra soffre per entropia, il problema non riguarda solo la presenza e l’azione dell’Uomo sulla natura, ma anche il contesto minerale e animale e di opere che gli consentono di vivere e progredire. Al di là delle sbornie sulla fine del mondo, è facile comprendere che calpestano e inquinano la terra, ne usano le risorse e ne consumano le acque anche quei mondi agricoli e animali che dovranno consentire agli esseri umani di vivere senza patire la fame, la sete e le malattie. Lo sviluppo della meccanizzazione può aiutare a ridurre i costi, soprattutto della manodopera.