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Le proteste degli agricoltori non sono una sorpresa. Castellani spiega il paradosso europeo

Una transizione ecologica pianificata dal centro a tappe forzate, calata dall’alto su territori, imprese e cittadini, senza tenere conto di questioni strategiche e di rapporti internazionali, non sono soltanto inattuabili ma controproducenti. La prossima legislatura europea dovrebbe prendere atto di questa situazione e correggere il tiro. La riflessione di Lorenzo Castellani

Che cosa ne sarebbe dell’agricoltura europea senza sussidi? Molto poco probabilmente poiché già con la Pac e gli sgravi dei governi nazionali gli europei non riescono a soddisfare la domanda interna e dovendo importare prodotti dall’estero. Le aziende agricole, soprattutto piccole, sono poco profittevoli e l’intero settore è dipendente dai sussidi. La globalizzazione morde l’agricoltura domestica e le nuove filosofie green impongono vincoli e obblighi ritenuti insopportabili da una classe imprenditoriale di questo settore già molto sofferente.

Qui c’è il paradosso europeo: da un lato sottrarre al mercato l’agricoltura attraverso sussidi e dazi, dall’altro imporre una transizione a tappe forzate verso il biologico, che rende meno agli agricoltori medio-piccoli, e il riposo obbligatorio di una porzione della superficie agricola. Di conseguenza, una categoria da decenni tutelata si ribella all’imposizione improvvisa di vincoli europei del green deal che diminuirebbero la resa oppure di tasse nuove che colpirebbero i motori a combustione delle macchine agricole.

C’è in questa contraddizione tutto il vizio del peggior centralismo: inondare di denaro pubblico e agevolazioni una categoria e poi imporre obblighi su come esercitare l’attività. Le proteste non sorprendono così come la saldatura tra gli agricoltori e i partiti populisti e di destra radicale che dicono di volerli proteggere ancora liberandoli dai lacci dell’ecologismo ideologico.

Non va meglio in altri settori industriali. Chi è nel settore della plastica non scapperà alla plastic tax, aumenteranno i dazi per chi produce in paesi più inquinanti riportando in Europa i prodotti, mentre il settore automobilistico mostra tutta la sua debolezza nella scelta di puntare tutto sull’elettrico. Anche qui c’è stato un esercizio di dirigismo spietato e in contrasto con le possibilità reali attraverso l’inondazione di contributi pubblici e incentivi per la mobilità elettrica. Tuttavia, il business non decolla per le grandi case europee, messe in difficoltà sia dagli americani che dai cinesi, con annessi rischi per l’occupazione. Il risultato è che i produttori europei di automobili ricattano oramai apertamente i governi per avere sussidi pubblici al fine di produrre veicoli elettrici in Europa e non altrove. Automobili full-electric che a loro volta faticano molto sul mercato europeo e la cui appetibilità commerciale dipende anch’essa dagli incentivi pubblici previsti dai governi. La realtà è che la tecnologia dei veicoli elettrici non è pronta per servire tutta la popolazione, non lo è sul piano infrastrutturale, non su quello dei costi e nemmeno su quello operativo. Per questo motivo decarbonizzare senza alternative efficienti rischia soltanto di alzare l’inflazione energetica e aumentare lo scontento verso le istituzioni europee.

Tutte queste difficoltà dovrebbero far riflettere la maggioranza che governa a Bruxelles e i principali partiti nazionali: una transizione ecologica pianificata dal centro a tappe forzate, calata dall’alto su territori, imprese e cittadini, senza tenere conto di questioni strategiche e di rapporti internazionali, non sono soltanto inattuabili ma controproducenti. La prossima legislatura europea dovrebbe prendere atto di questa situazione e correggere il tiro anche tenuto conto delle ripercussioni politiche di una crociata troppo ideologica.



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