Il Festival di Sanremo ha mostrato che l’Italia può anche parlare di produzioni culturali contemporanee; che i cittadini italiani possono scontrarsi anche sulla base di messaggi sociali e politici. Non era affatto ovvio che questo festival riuscisse nella immane sfida di far concentrare quasi l’intera popolazione italiana su un’espressione culturale importantissima: la canzone
Nei giorni immediatamente successivi alla settimana della musica italiana, come di consueto, il Festival di Sanremo è stato protagonista indiscusso del dibattito pubblico, con analisi, recensioni e riflessioni sugli esiti.
Come di consueto, dicevamo, ma con una nota di insolito fervore semipolitico.
Diverte leggere o ascoltare i pareri illustri che individuano nei fischi a Geolier una spaccatura tra Napoli e il resto d’Italia, così come ilari sono le elucubrazioni che contrappongono (e qui nuovamente Geolier suo malgrado si trova coinvolto) la musica patinata dalla musica dal basso (soprattutto se si tiene conto che gli artisti inseriti in questa contrapposizione a volte sono rappresentati dalla medesima etichetta discografica o dallo stesso distributore).
Imbarazzano le dichiarazioni ufficiali, del tutto fuori luogo, legate all’espressione di artisti come D’Amico e Ghali (stavolta, pare che Geolier non sia stato coinvolto), così come forzate sono le espressioni di chi, come Saviano, vede in uno slogan anti-israeliano, una rivincita dell’arte su una Rai di estrema destra.
Tra tutte queste ordite trame, e nonostante i record proclamati con cadenza quotidiana, è quasi passata in secondo piano la vera e più importante rivoluzione che questa edizione del Festival di Sanremo ha effettivamente raggiunto: ha avuto successo.
Intendiamoci, era quasi ovvio che la passerella sanremese fosse destinata a monopolizzare l’attenzione televisiva. Molto meno ovvio era che un festival musicale (per quanto importante), trasmesso sulla televisione pubblica, e condotto per il quinto anno consecutivo da un presentatore che, prima del festival, si rivolgeva ad una fetta di pubblico molto chiara e molto in linea con la demografia italiana, ebbene, non era affatto ovvio che questo festival riuscisse nella immane sfida di far concentrare quasi l’intera popolazione italiana su un’espressione culturale importantissima: la canzone.
Per una settimana, al netto di siparietti travoltiani di indiscutibile e indiscussa bruttezza, e al netto di complottismi edulcorati al punto da aver sapor di glutammato, l’Italia si è unita e spaccata intorno ad un ritornello, ad un testo, ad una posizione sociale, ad un abito.
Centrale, nell’opinione pubblica, è stata l’espressione di una o più produzioni culturali del nostro Paese. Evento che negli ultimi anni, accade davvero raramente. Difficile che il Festival possa più di così.
Si può forse ottenere di più introducendo all’interno del dibattito degli elementi che diano ulteriori elementi di confronto: l’esecuzione dell’orchestra, la ricchezza delle produzioni musicali (il brano vincitore, vanta la produzione musicale da parte di Dardust), lo spessore e la ricercatezza di alcuni testi (sempre per restare sul podio, tra gli autori della canzone di Angelina Mango la firma di Madame).
Non si tratta di rendere gli italiani degli ascoltatori esperti: si tratta di applicare quegli strumenti di ascolto che in fondo tutti utilizzavano quando nelle radio c’erano Battisti e Mogol, per non parlare del fervore semi-messianico che in molti si accendeva per il cantautorato.
Perché diciamolo, con questi livelli di ascolto e di diffusione tra la cultura reale del Paese, i prossimi successi del Festival non dovranno limitarsi ad un punto percentuale in più rispetto allo share del 2003 o del 2004.
Per ottenere più di quanto abbia ottenuto questa edizione del Festival di Sanremo, per assurdo, non basta agire “sul” festival, è necessario agire anche al di fuori dello stesso.
Bisogna stimolare gli italiani ad ascoltare con più attenzione, tanto la musica che le parole, e non percepire ciascun approfondimento come un’insidia a sua maestà la leggerezza, araldo dietro il quale si nasconde spesso un’inedia intellettuale disarmante.
I veri protagonisti delle polemiche politiche emerse dalle dichiarazioni espresse sul palco, sono la disattenzione e l’analfabetismo funzionale.
Solo così si può spiegare come mai ci siano state tante polemiche per una dichiarazione di un artista ai margini della sua esibizione, e non per il testo della canzone appena interpretata.
Un esempio: Dargen D’Amico è stato al centro di una polemica per una delle sue dichiarazioni, accusate di essere di stampo politico. Eppure, pochi hanno espresso indignazione per il testo del brano, che dal titolo in poi, inquadra perfettamente la tematica e le posizioni espresse.
Ancor più esplicito il brano Casa Mia di Ghali: “Ma come fate a dire che qui è tutto normale? Per tracciare un confine con linee immaginarie bombardate un ospedale, per un pezzo di terra o per un pezzo di pane.” Possibile che ce ne sia accorti soltanto dopo che il cantante meneghino ha utilizzato la parola-tabù?
Riassumendo, quindi, il Festival di Sanremo ha mostrato che l’Italia può anche parlare di produzioni culturali contemporanee; che i cittadini italiani possono scontrarsi anche sulla base di messaggi sociali e politici che la cultura, in quanto espressione del proprio tempo, necessariamente esprime, talvolta in modo esplicito, talaltra in modo più sottile; il Festival ha altresì fornito una dimensione valoriale di generazioni che spesso non vengono rappresentate tra i mezzi istituzionali (parità di genere e autoaffermazione, distacco disilluso dalle dichiarazioni formali delle istituzioni, capacità di interpretare la propria storia personale all’interno di una riflessione che supera la propria vita e si inscrive all’interno di un più ampio scenario); il Festival, ancora, ha mostrato che esiste una diversità di generi musicali che vengono prodotti in Italia, alcuni di essi sconosciuti ai più e che forse meriterebbero di essere più pienamente al centro delle programmazioni culturali territoriali.
Quello che il Festival, da solo, non può fare, è fare in modo che le persone si riabituino ad ascoltare i brani, a comprenderli, ad indignarsi o esaltarsi per la presenza di alcuni messaggi o per la loro totale assenza.
Bisogna pur sempre ricordare che tutto, in principio, era poesia e musica.
Alcuni canoni sono scomparsi, di nuovi ne sono sorti. Sono stati inventati strumenti, suoni, metriche, anti-metriche, sono state introdotte parole straniere, parole inventate, parole sgrammaticate. Ma poesia e musica resta.
Adesso che siamo per lo più assuefatti all’estetica del jingle, trattando come colonna sonora da supermercato brani che hanno invece ambizioni ben differenti, vale forse la pena svelare agli italiani il più grande inganno del novecento italico: il brano Tropicana, del Gruppo Italiano, parla di un disastro nucleare.