Non c’è democrazia occidentale che non presupponga un limite temporale al potere scaturito dalle cariche elettive monocratiche, potere che naturalmente non è paragonabile a quello del singolo parlamentare. Il commento di Andrea Cangini
Gira da settimane in rete il video di un comizio di Matteo Salvini del settembre 2016. Siamo a Pontida, nel cuore dell’immaginario, dell’identità e della strategia leghista. Dal palco, il segretario scolpisce tra gli applausi un concetto chiaro. Un concetto apparentemente granitico: “Serve un limite di due mandati per ogni carica elettiva a cominciare dai parlamentari come c’è per i sindaci. È cosa buona e giusta perché dopo dieci anni penso che si possa lasciare spazio a qualcun altro che possa prendere il nostro posto a Bruxelles, a Roma o in Regione”. Salvini ne fece una questione di principio. Lo fa anche oggi, ma difendendo un principio opposto: eliminare il limite dei due mandati sarebbe una questione di democrazia. È la tesi enunciata su Repubblica da Roberto Calderoli in difesa nientemeno che della “sovranità popolare”. “Se deve esserci scelta democratica non può esserci limite”, dice Calderoli, ma se c’è un limite per i sindaci e per i presidenti di Regione, “allora per coerenza facciamo come i 5 Stelle e introduciamo il limite dei due mandati anche per i parlamentari”. Un limite che lo stesso Calderoli, contraddicendo il Salvini del 2016, dice però di non condividere. Insomma, un caos. Una strabiliante sequenza di contraddizioni utili a comprendere quanto poco i principi animino il dibattito in corso. Un dibattito nato, come è noto, dall’esigenza di Salvini di assicurare alla Lega altri cinque anni di guida della regione Veneto e di non ritrovarsi alle prese con un Luca Zaia disoccupato e pertanto libero di insidiare la leadership nazionale del partito.
Eppure, il limite di due mandati consecutivi per i sindaci di Comuni superiori ai 15mila abitanti fu introdotto nel ’93 proprio in ragione di un’ampia serie di principi. Principi che la Corte Costituzionale ha ben riassunto con la sentenza numero 60 dello scorso anno. Il limite di due anni al mandato dei sindaci, si legge, “costituisce un punto di equilibrio tra il modello dell’elezione diretta dell’esecutivo e la concentrazione del potere in capo a una sola persona”. Infatti, “il limite ha lo scopo di tutelare il diritto di voto dei cittadini […] impedendo la permanenza per periodi troppo lunghi […] che possono dar luogo ad anomale espressioni di clientelismo” e “serve a favorire il ricambio ai vertici dell’amministrazione locale ed evitare la soggettivizzazione dell’uso del potere dell’amministratore locale”. In sostanza, “la previsione del numero massimo dei mandati consecutivi […] riflette una scelta normativa idonea a inverare e garantire ulteriori fondamentali diritti e principi costituzionali: l’effettiva par condicio tra i candidati, la libertà di voto dei singoli elettori e la genuinità complessiva della competizione elettorale, il fisiologico ricambio della rappresentanza politica e, in definitiva, la stessa democraticità degli enti locali”.
Non c’è democrazia occidentale che non presupponga un limite temporale al potere scaturito dalle cariche elettive monocratiche, potere che naturalmente non è paragonabile a quello del singolo parlamentare.