L’attacco devastante rivendicato dallo Stato islamico arriva in un momento di vulnerabilità per Putin: appena uscito dalle urne vincitore, deve proteggere la presidenza dall’ampio malcontento (sebbene non pubblico). Si creerà una cortina fumogena di narrazione attorno all’accaduto, mentre si pensa già che il Cremlino abbia ignorato gli avvertimenti americani per creare una sorta di false flag. Ma l’Is ha da tempo la Russia nei suoi obiettivi
Il primo elemento di rilievo è che l’attacco al Crocus City Hall, un teatro a Mosca che nella serata di venerdì è finito al centro del mondo, è stato rivendicato dallo Stato islamico. Ed è stata la struttura centrale a farlo, tramite la nota Amaq News — megafono propagandistico camuffato da agenzia di stampa, che ai tempi del controllo califfale sul Siraq e della diffusione globale delle istanze di Abu Bakr al Baghdadi faceva da cassa di risonanza per fanatici e proseliti. La rivendicazione della struttura centrale probabilmente serve a elevare l’azione sul livello di quelle più epiche del gruppo, come la notte del Bataclan, e dargli un peso nel sistema continuo di proselitismo che permette all’organizzazione jihadista di essere ancora in vita – nonostante più defilata dalle cronache mainstream di cui anni fa aveva invece acquisito totale centralità.
Ad agire potrebbe essere stata la filiale IS-K (o ISKP), la provincia del Khorasan con sede tra Afghanistan e Pakistan, una delle più attive e collegata a una serie di recenti attacchi (alcuni sventati) in Europa e Medio Oriente (per esempio in Turchia). Quando nell’agosto del 2021 si esprimevano perplessità per la riconquista di Kabul da parte dei Talebani, la più pragmatica (oltre le limitazioni di libertà a cui l’organizzazione fondata dal Mullah Omar avrebbe sottoposto i cittadini), era questa: l’Afghanistan potrebbe tornare un safe haven per il terrorismo internazionale. A differenza di quanto successo con al Qaeda, che trovò protezione nel precedente emirato dei talebani afghano e vi organizzò l’attacco più spettacolare della storia del terrorismo, il 9/11, Talebani e Is-K sono divisi da un’ideologia profonda, che va dall’interpretazione generale del sunnismo fino alla visione locale talebana, che i baghdadisti detestano ambendo a uno Stato islamico globale (stessa ragione per cui criticano Hamas, per esempio, e infatti i palestinesi hanno condannato l’attentato moscovita). Ma i Talebani non riescono a combattere Is-K, che sta controllando sempre più territorio, nelle dinamiche del proselitismo sta prendendo sempre più attenzioni, in definitiva si sta rafforzando forse al punto di organizzare una missione d’attacco a Mosca (e poi? L’Europa o il Medio Oriente).
Ed è per questo che l’attentato in Russia interessa l’Europa e il mondo. Non sono solo gli almeno 60 morti e 150 feriti (si scrive “almeno”, perché in questi casi è facile che il bilancio si aggravi). Detto con un esempio: l’attacco di Kerman, contro i fedeli che andavano in pellegrinaggio alla tomba del generale iconico dei Pasdaran Qassem Soleimani, era stato organizzato dall’IS-K, e dunque sta dimostrando la capacità di agire a migliaia di chilometri di distanza dalle sue roccaforti. Come nel caso di Kerman, l’ambasciata britannica e americana avevano avvertito del pericolo. L’8 marzo le due sedi diplomatiche occidentali a Mosca avevano avvertito i concittadini di evitare i grandi eventi e i concerti perché c’era il pericolo di un attentato. Il 7 marzo, i canali russi davano la notizia di un raid con cui l’intelligence interna aveva “eliminato” una piccola cellula di terroristi islamici dell’IS-K a Kaluga, nel sud-ovest di Mosca: “Pianificava un attentato a una sinagoga nella capitale” – in quello stesso luogo, a febbraio 2023 c’era stata un’altra operazione. Il 22 marzo era toccato a un raid in cui erano stati uccisi sei miliziani e altri 30 arrestati in Ingushetia. A febbraio di quest’anno ce n’è stata un’altra ad Altai Krai, verso il confine kazako; a marzo, aprile, settembre dello scorso anno tre presunti affiliati allo Stato islamico erano stati arrestati a Mosca. Non solo: fuori dai confini, in Polonia e Turchia, due cittadini russi sono stati arrestati il mese scorso in due operazioni diverse contro affiliati dell’IS. Ad aprile 2023 il Cremlino rivendicava il successo contro una cellula che pianificava un attentato nella capitale. A settembre 2022, IS-K aveva attaccato l’ambasciata russa di Kabul. Il Cremlino da tempo ripete dei rischi legati al terrorismo (dal Tagikistan per esempio) era perfettamente consapevole dei rischi che stava correndo, preparato anche da esperienze precedenti di attentati e lotta all’insorgenza terroristica di gruppi come quello ceceno o daghestano (che potrebbero aver assistito a livello logistico i miliziani dell’IS).
È possibile che Vladimir Putin abbia lasciato le maglie della sicurezza larghe per creare una sorta di false flag e poi intestarsi il controllo totale successivo? Una nuova imposizione della legge marziale post-attentato sarebbe utile al potere russo, messo in discussione per gli insuccessi ucraini e più in generale per la gestione del Paese (dove all’incessante richiesta di contrazioni delle libertà non corrisponde una prosperità e dunque il patto sociale che altrove funziona, in Russia ha fondamenta molli). C’è da gestire l’immagine però, perché contrariamente a quello che dicono le urne, in Russia c’è un malcontento diffuso. La risposta sarà probabilmente affidata a una narrazione complessa: innanzitutto la lotta al terrorismo è da sempre parte della propaganda che ha accompagnato varie iniziative, dalla decisione di entrare in guerra in Siria nel 2015 fino alle attività in Africa. Ma poi ci saranno le ricostruzioni alterate, quelle che collegano l’IS con la Cia e l’Occidente nemico (già usate per la Siria) e in questo caso non mancherà qualche “strada che porta a Kyiv”.
Mentre gli americani forniranno informazioni anonime alla stampa per dimostrare la maggiore capacità operativa, raccontando ciò che sapevano e gli avvertimenti inascoltati, Putin maschererà la falla di sicurezza interna (uguale debolezza) con la cortina fumogena della narrazione. D’altronde, il 19 marzo era stato proprio il presidente a respingere gli avvertimenti dei diplomatici statunitensi secondo cui il rischio di un attacco terroristico in un luogo affollato a Mosca era imminente. Parlava di “ricatto a titolo definitivo” da parte dell’Occidente e di un tentativo di “intimidire e destabilizzare la nostra società”, le definiva “provocazioni”. Tuttavia sebbene raccontare tutto ciò che accade in Russia con la lente putincentrica sia funzionale alla rappresentazione semplificata di un Paese complesso, ed è anche parzialmente realistico, va anche tenuto conto che il terrorismo esiste anche al di fuori della Putin-bubble, e molto spesso agisce con consapevolezza che il gesto possa creare scossoni complessi nell’opinione pubblica. Sono gli americani stessi a dirlo: non c’è ragione adesso per non credere all’attentato dello Stato islamico.