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Dalla biografia del papa emerge il suo metodo. La riflessione di Cristiano

Esistono dei poli, che appaiono contrapposti, e invece sono opposti, ma non contraddittori. È solo nella naturale opposizione tra di loro che si procede: non per eliminare l’uno o l’altro, ma per salire a un livello più alto e procedere. La riflessione di Riccardo Cristiano sulle anticipazioni dell’autobiografia del papa, “Life – La mia storia nella Storia”, edito da Harper-Collins, e scritto con Fabio Marchese Ragona

Si è molto parlato in questi giorni delle affermazioni di papa Francesco sull’Ucraina, credo che le anticipazioni del suo libro autobiografico pubblicate in queste ore ci offrano due spunti importanti per capire meglio non il merito ma il metodo che segue Francesco, una sorta di approccio dal quale partire. Questo metodo a mio avviso parte da una sua certezza: esistono dei poli, che appaiono contrapposti, e invece sono opposti, ma non contraddittori. Dunque è solo nella naturale opposizione tra di loro che si procede: non per eliminare l’uno o l’altro, ma per salire a un livello più alto e procedere. I conflitti (di visione) in definitiva non vanno risolti, ma devono trovare nell’oscillazione energetica, vitale, tra i due poli il modo per farci procedere. Faccio l’esempio più arduo in poche parole: esiste l’individuo? Esiste la società? Questa opposizione con è contraddittoria, essendo l’uomo un individuo, ma che non può prescindere dalle relazioni. Sono gli incontri che facciamo a cambiarci, altrimenti non cambieremmo mai.

Partendo di qui possiamo capire meglio quanto dice sull’Ungheria e l’Unione Europea: «Ogni popolo porta le sue ricchezze, la sua cultura, la sua filosofia e deve poterle mantenere, armonizzandosi nelle differenze. Ne ho parlato proprio a Budapest perché spero che quelle parole siano ascoltate sia dal primo ministro ungherese Viktor Orbàn, perché capisca che c’è sempre tanto bisogno di unità, sia da Bruxelles — che sembra voler uniformare tutto — perché rispetti la singolarità ungherese». Non penso che il papa apprezzi particolarmente la “democrazia illiberale” di Orbàn, e dice che Orbàn non unisce (un riferimento anche alla democrazia illiberale?) , l’Unione Europea cerca di uniformare. Questo passaggio mi ha molto colpito perché secondo un certo modi ragionare bisogna uniformare tutto, no? Qui dobbiamo per un momento lasciare Orbàn e chiarici qualche idea sulle “civiltà”. In realtà si dice che noi apparteniamo alla civiltà “Occidentale”. Ma l’Occidente dove comincia? Nel 1834 il capo della diplomazia britannica definì “alleanza tra stati costituzionali dell’occidente” quella tra Gran Bretagna, Francia, Portogallo e Spagna, “contrappeso alla Santa Alleanza orientale: Russia, Prussia e Austria”. Nel 1854 la guerra di Crimea modificò i confini: di là, a oriente, c’era solo la Russia.

I termini, Oriente e Occidente, avranno anche un senso, ma vengono usati per creare una contrapposizione intesa come insuperabile contraddizione. Le civiltà, come ce le ha spiegate Samuel Huntington, sono dei blocchi chiusi, autoreferenti, impermeabili. Qualcosa come gli alberi, con le loro radici che mai incontrano altre radici. Non a caso anche noi, gli individui, siamo spesso presentati così, come alberi che affondano le loro radici solo in un pozzo, cioè in un ambiente definito, mai contaminato da altri ambienti, da altro. Il ragionamento che in queste poche righe ci prospetta Francesco è molto diverso: serve unità, non uniformazione. E l’unità è tra qualcosa che non collega dei cloni. Il suo dunque è un discorso pluralista. Essendo un credente lui riterrà che se non siamo tutti uguali sarà per una precisa volontà divina, non per un caso. Queste diversità vanno preservate, perché ci arricchiscono, non pongono contraddizioni irrisolvibili, ma diversità indispensabili, frutto anche della storia, ovviamente. Parliamo di diversità, non di contraddizioni. E questo si capisce ancor meglio passando al secondo brano delle anticipazioni sul libro del papa che voglio richiamare.

È quello relativo a Hiroshima: “Le persone al bar o in oratorio dai salesiani dicevano che gli americani — li chiamavano los gringos — avevano lanciato questi ordigni micidiali… L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è un crimine contro l’uomo, contro la sua dignità e contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. È qualcosa di immorale! Come possiamo ergerci a paladini della pace e della giustizia se poi nel frattempo costruiamo nuove armi da guerra?” Su questo Francesco sembra incontrare più facilmente l’opinione corrente, ma Hiroshima e Nagasaki sono in realtà, per “l’Occidente”, due brutte cose, ma circoscritte e indispensabili. Si pose termine così a una guerra che altrimenti sarebbe potuta proseguire chissà ancora per quanto, mietendo chissà quante altre vite. In definitiva fu una dolorosa necessità. Così in realtà la pensiamo. Ma questo pensiero poco si incontra con quel rispetto dei diritti umani, o “dell’individuo” se si preferisce, che riteniamo fondamento della nostra “civiltà”. Siccome San Paolo disse che “Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”, e San’Agostino chiosò “anche il peccato”, anche noi, fraintendendo il senso evidente delle parole di San Paolo, potremmo ritenere che Hiroshima e Nagasaki, peccati, hanno concorso al bene, amando noi Dio e la pace.

Francesco mi sembra proponga un’altra strada: le diversità non sono incompatibili se si stabiliscono dei punti comuni. Il pluralismo non è relativismo. Il punto è che il papa non può essere il cappellano di Biden (oggi, domani magari di Trump), come Kirill è certamente il cappellano di Putin: il papa deve essere un’autorità morale globale, cioè deve saper capire la storia da tutti le diverse angolazioni, per cercare uno sguardo che non uniformi alla nostra prospettiva, rispetti le diversi angolature: sa che esistono anche le verità degli altri, non solo la mia, ma con la sua autorità morale cerca di farci trovare i punti comuni dai quali le nostre diversità derivano.

Qui devo necessariamente chiarire che il mio punto di vista può differire da quello di Francesco: non so cosa pensi di Putin, io ne penso tutto il male possibile, ma ritengo anche che il secondo Putin sia il frutto della cecità statunitense nei confronti di Mosca ai tempi del crollo del blocco sovietico. Non mi dilungo, dico solo che quel passaggio fu gestito per me – per essere chiari ma non offensivi – coi piedi.

Ora c’è un punto che non può essere messo sul piatto del disponibile: Putin non può e non deve poter “uniformare” a sé e al suo imperialismo quello che che per lui è “il mondo russo”, ma che io leggendo nei suoi occhi capisco come “il suo spazio vitale”. Per questo ritengo che negoziare voglia dire inserire sul tavolo negoziale anche altro, non in termini territoriali, ma di cooperazione e sicurezza.

Tutto questo, a mio avviso, ci porta a un’idea di negoziato che se si riducesse ai soli confini ucraini sarebbe una sconfitta in partenza. Forse il mondo di Putin non è tutto rose e fiori. Il suo obiettivo mi sembra trattare con Trump, non ora. Ecco allora che cercare di batterlo sul tempo può essere il modo per impedire ciò che considero il male, cioè il riconoscimento di un suo “mondo russo”, o giù di lì. Ma forse esistono legittime esigenze di equilibrio. La storia mi sembra un flusso di fatti concatenati, la rete degli errori va sciolta, per questo Spinoza diceva che le azioni umane non vanno lodate, detestate, o irrise, ma capite. E capire non vuol dire giustificare.



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