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Perché gli Usa chiedono l’aiuto dei Carabinieri ad Haiti? Risponde Cristiani

Gli Usa invitano l’Italia a prendere parte alla missione multinazionale per salvare Haiti. Il valore dei Carabinieri sarebbe importante per la stability policing pensata da Washington, che soffre pesantemente la crisi nel Paese caraibico. E lo status internazionale di Roma, leader del G7, crescerebbe, dice Cristiani. Ma c’è anche una sfida politica interna

Washington vorrebbe l’aiuto dei Carabinieri ad Haiti, per una situazione che il National Security Council descrive così: “Stiamo mobilitando urgentemente tutto il sostegno che noi e la Comunità internazionale possiamo immediatamente fornire ad Haiti, in particolare alla polizia nazionale haitiana, per garantire che siano in grado di ripristinare la sicurezza per il bene del popolo”. Il presidente americano, Joe Biden, avrebbe comunicato alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, durante il loro recente incontro, che la crisi nel Paese caraibico è degradata al punto di rappresentare un interesse primario per la stabilità statunitense, e per questo l’America avrebbe bisogno anche dell’aiuto degli alleati. È una situazione complessa, dove l’Italia può giovare le sue carte per elevare anche il proprio status di potenza internazionale, ma non senza difficoltà di gestione.

La presidenza Italiana del G7 è ora a pieno regime e su questo “la percezione oltreoceano direi che è positiva, come dimostrato dalle reazioni alla visita avute sia qui negli Stati Uniti che in Canada”, commenta Dario Cristiani, senior fellow del German Marshall Fund, che in un’ampia conversazione con Formiche.net ragiona sul rapporto tra leader, che è sia di carattere personale — “è stato notato anche qui, come la crisi di nervi di quelli di Fox rispetto all’evoluzione di questa relazione ha dimostrato” —  ma anche di livello politico, nonostante le chiare diversità ideologiche. È questo che sta alla base di richieste come quella per Haiti.

A un livello più burocratico-istituzionale, l’idea dominante è che questo governo abbia seguito le orme del precedente, si sia rivelato un partner affidabile e serio e abbia addirittura le capacità e la forza per far giocare all’Italia un ruolo ancora più da protagonista, in molti ambiti, anche relativamente inaspettati. E prima di andare avanti è bene ricordare che se un governo viene percepito così, è un bene per il sistema-paese, non solo per il governo in sé. L’idea che invece queste attestazioni dimostrino mancanza di autonomia o una presunta subalternità sono di chi vede la politica internazionale con lenti infantili, insegue neutralismi velleitari e irrealistici, o di chi ha agende chiaramente diverse ma fatica a dirlo in maniera aperta e onesta”.

Ragioniamo su quegli ambiti “inaspettati”, perché la richiesta per Haiti è certamente uno di questi. Gli Stati Uniti hanno iniziato da un po’ un corteggiamento per spingere l’Italia a impegnarsi nel supportare la missione multinazionale autorizzata dall’Onu (sebbene non sia una missione formalmente sotto l’egida delle Nazioni Unite) il 3 ottobre scorso, con la risoluzione 2699 del Consiglio di Sicurezza. Con essa si è approvato il dispiegamento di una missione multinazionale, guidata dal Kenya, con un migliaio di ufficiali integrati da piccoli contingenti delle Bahamas, dalla Giamaica e da Antigua e Barbuda, per aiutare la polizia haitiana a sconfiggere le bande criminali. L’idea americana è che di quel contingente faccia in qualche modo parte un’eccellenza italiana come i Carabinieri.

Ma Haiti non è proprio un paese storicamente essenziale nei disegni di politica estera italiana. “Certo – continua Cristiani – Haiti è chiaramente fuori dal perimetro classico degli interessi di politica estera italiana. Ma le varie crisi che stanno portando il Paese sull’orlo del collasso sono tante, e così potenzialmente forti, da rendere Haiti un problema globale e transatlantico, quindi anche italiano”.

Cosa sta succedendo? “La situazione nel paese è chiaramente, e oramai da molti mesi, fuori controllo. Dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel 2021, questo paese ha assistito a un’escalation di violenza inaudita tra bande rivali, situazione che è peggiorata ulteriormente dopo le mancate dimissioni del primo ministro Ariel Henry nell’ambito di un accordo per nuove elezioni. Solo nel 2023, ci sono state oltre 8.500 morti, e le bande armate controllano circa l’80% di Port-au-Prince, la capitale. Negli ultimi giorni, questi gruppi hanno orchestrato un’evasione di massa, rilasciando circa 4.000 detenuti, compresi i membri delle bande coinvolte nell’uccisione del presidente Moïse. Il famigerato Jimmy ‘Barbecue’ Chérizier, ex poliziotto e attualmente capo del gruppo armato dei Fòs Revolisyonè G9 an fanmi e alye, ha dichiarato l’intenzione di lanciare un attacco coordinato per rovesciare il primo ministro, provocando ulteriori disordini e scontri a Port-au-Prince. In tutto questo, il Paese è anche vittima di altre crisi: ambientale, alimentare, sanitaria. Insomma, un concentrato potentissimo, con livelli molteplici di crisi che può portare alla disintegrazione totale di un paese che ha già subito tantissimi problemi negli ultimi anni”.

Ma perché gli Stati Uniti guardano proprio l’Italia? “Per gli Stati Uniti, Haiti è un problema di sicurezza e legato al fenomeno migratorio. Diciamo che per Washington il problema è simile a quello che l’Italia affronta con l’instabilità in Nord Africa e nel Sahel: se questa instabilità non è affrontata e quantomeno attenuata, la pressione migratoria è destinata a restare significativa. Destra o sinistra, il dossier migratorio è un dossier spinoso e complicato, per tutti. Quindi, qualsiasi azione che possa affrontare crisi la cui risoluzione dia la possibilità di, quanto meno, calmierare la portata di questo fenomeno è ben accetta. Negli Stati Uniti, molti hanno una sincera ammirazione per le capacità italiane nel cosiddetto Stability Policing e per le capacità dei Carabinieri, visti da molti come un asset unicamente italiano e che quindi aumenta l’appeal geopolitico dell’Italia come partner nelle missioni internazionali”.

E che ruolo dovrebbe avere Roma, secondo Washington? “Sul ruolo, le sensibilità sono tante e diverse. Alcuni vedrebbero di buon occhio un coinvolgimento diretto dell’Italia nella missione internazionale, mentre altri si accontenterebbero di un ruolo proattivo nel supporto al training dei militari coinvolti in questa missione. L’Italia, è bene ricordare, ospita il Centro d’Eccellenza Nato per lo Stability Policing ed è uno dei paesi dell’Alleanza più preparati in questa skill fondamentale. A grandi capacità, corrispondono in genere grandi aspettative: direi che questo è proprio il caso.

Davanti a questo, la domanda – il giorno dopo del via libera parlamentare alla missione Aspides nel Mar Rosso – è d’obbligo: come dovrebbe comportarsi l’Italia davanti a certe offerte? “Fortunatamente nella vita faccio l’analista in un think tank, e non il ministro di un paese presidente del G7, quindi non devo decidere su una cosa cosi complessa. Scherzi a parte, credo che si siano vari elementi che devono essere presi in considerazione, alcuni a favore e altri contro. Da un lato, c’è una questione di cui in Italia si parla pochissimo, che è quella dello status del paese a livello internazionale. Se l’Italia vuole essere presa sempre più sul serio nell’arena globale deve iniziare a prendersi responsabilità crescenti anche laddove i suoi interessi immediati non sono in gioco, ma dove si giocano partite che possono avere ripercussioni negative su alleati o governance globale. Direi che la questione haitiana, in questo senso, rientra pienamente in questi parametri. Inoltre, con il Kenya a capo di questa missione, un ruolo attivo in supporto di questo paese africano sempre più attivo a livello globale, darebbe molta sostanza alle ambizioni del Piano Mattei, giusto per citare un ambito non immediatamente transatlantico dove una tale azione potrebbe portare ad effetti positivi.

Questi sono lati pro: quelli contro? “C’è un problema di risorse, di vario tipo. Finanziarie, certamente. Questo è un problema che già si sta presentando, in maniera sistematica e sistemica, rispetto alla proiezione italiana nell’Indo-Pacifico: lanciarsi in questo ambito a rischio di ritorni minimi a causa di investimenti necessariamente limitati, o focalizzare le poche risorse disponibili per contare di più nel Mediterraneo? Ma c’è anche un problema di risorse di altro tipo, militari ma anche più squisitamente umane: quanti militari possono realisticamente far parte di una missione del genere, anche riducendo in parte o del tutto operazioni come “Strade Sicure”, quando l’Italia è già impegnata in tanti altri teatri? Oppure: quanti burocrati realmente esperti di queste questioni sono a disposizione per far si che l’azione italiana, anche di coordinamento diplomatico internazionale e di capitalizzazione politica successiva, sia all’altezza?

Poi, c’è chiaramente un problema di opinione pubblica ben percepito nel Paese, che già sta emergendo in questi giorni con il dispiegamento di forze italiane nel Mar Rosso: c’è una parte di opinione pubblica, sia a destra che a sinistra, che non vuole questo tipo di proiezione italiana. La proiezione militare è criticata in ambiti dove la nostra sicurezza diretta è in gioco, come nel cortile geostrategico del Mar Rosso: immaginiamoci in teatri che non sono visti come essenziali. “Dirà di più, in particolare ci sono critiche se certi impegni rispondono a un’esigenza di sicurezza degli americani, dove si innesta anche un elemento di ‘anti-americanismo pavloviano’ esistente in determinati settori. L’attuale governo si è dimostrato abbastanza capace di gestire il trade-off tra serietà e affidabilità diplomatica e necessità elettorali, come dimostrato dalla questione ucraina. Ma, se un governo è eletto, non sempre può resistere a queste pressioni, è un ruolo diretto in una missione multinazionale ad Haiti potrebbe essere più complicato da gestire”.

In sostanza, da un punto di vista di status e percezione internazionale dell’Italia, il fatto che gli Stati Uniti vogliano che le forze italiane giochino un ruolo nel contesto haitinano dimostra una stima sincera rispetto alle capacità di aver un ruolo effettivo nelle missioni multinazionali e un’ammirazione sincera per un asset come quello dei Carabinieri, visto come un grandissimo valore aggiunto dal punto di vista politico-militare. Ma ci sono problemi tecnici e politici da ponderare. “Un eventuale ruolo italiano ad Haiti, sebbene difficile da capire se visto tramite i parametri classici della nostra politica estera, potrebbe rappresentare un momento importante di crescita del paese come attore proattivo e centrale nel sistema internazionale capace di agire anche laddove i suoi interessi immediati non sono in gioco, ma laddove sono invece in gioco gli interessi delle alleanze in cui Roma vuole contare sempre di più e di alleati che vedrebbero positivamente questo impegno, come la dimostrazione che l’Italia è pronta a giocare un ruolo più maturo e completo nello scacchiere internazionale”.


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