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Perché il mercato unico europeo è ancora zoppo

A trent’anni dalla sua nascita il più grande spazio di libero scambio al mondo mostra tutti i suoi limiti. L’assenza di una medesima architettura fiscale è una seria ipoteca alla capacità di stare al passo degli Stati Uniti e di agguantare la transizione energetica. Ecco cosa scrivono gli economisti di Cassa depositi e prestiti

Trent’anni di mercato unico non sono pochi, specialmente se si tratta di quello più grande del mondo, con quasi mezzo miliardo di individui. Eppure, al tempo delle sanzioni contro la Russia, della concorrenza decisamente poco leale della Cina e dell’eterna ricerca dell’unione fiscale, di cui il nuovo Patto di stabilità potrebbe essere la pietra angolare, di strada da fare ce ne ancora tanta. L’Ufficio studi di Cassa depositi e prestiti, diretto da Andrea Montanino, ha appena redatto un documento che mira proprio a tracciare un bilancio del più grande esperimento globale per un’area di libero scambio, quella europea, appunto.

“A 30 anni dalla sua istituzione, il mercato unico europeo è ancora lontano dal conseguire il pieno godimento delle quattro libertà fondamentali e l’armonizzazione fiscale tra i diversi Stati”, è la premessa. “La mancata integrazione economica e fiscale dell’Europa determina un limite strutturale alle sue potenzialità di sviluppo rispetto a un’area di dimensioni comparabili quali gli Stati Uniti, come mostra la più debole dinamica della produttività negli scorsi decenni”.

Dunque, nonostante “gli scambi di beni abbiano beneficiato largamente del mercato unico, contribuendo anche alla formazione di catene di fornitura continentali, l’integrazione resta, però ancora limitata, con un valore di scambi intra-Ue pari al 26% del Pil, contro il 60% negli Usa. Sul fronte dei servizi, il mercato europeo sconta il persistere di normative diverse tra Stati e barriere legali che limitano l’attività transfrontaliera, creando un panorama frammentato con tante imprese che operano su scala nazionale con dimensioni più piccole rispetto agli Usa, in particolare nelle utilities”, scrivono gli economisti di Via Goito.

Non è finita. “La mobilità del lavoro in Europa è ostacolata ancora da barriere linguistiche, mancanza di riconoscimento dei titoli e sistemi pensionistici diversi, tanto che solo il 3% degli europei vive in uno Stato della Ue diverso da quello di nascita a fronte del 25% degli americani”. Mentre “il mercato dei capitali europeo è lungi da una piena integrazione, molto frammentato e penalizzato dall’assenza dell’unione bancaria. È meno sviluppato rispetto a quello Usa, in particolare nei segmenti innovativi, penalizzando lo sviluppo dimensionale delle imprese e la nascita e la crescita di start-up”.

Il punto di caduta, comunque, è sempre quello, la mancanza di un’unione fiscale. “Anche l’assenza di armonizzazione fiscale mina il mercato unico: la Ue ha 27 sistemi fiscali con aliquote d’imposta su società che vanno dal 9% al 35%, disparità che nel 2019 hanno favorito un profit shifting nell’area per 170 miliardi di euro. Non solo le differenze fiscali, ma anche i sussidi pubblici, specie gli aiuti di Stato, alterano la concorrenza e creano distorsioni e inefficienze allocative”.

Tutto questo ha un prezzo, che risponde al nome di clima. “L’ambizione dell’Europa di essere leader mondiale nella transizione verde non può prescindere dal rafforzamento del mercato unico europeo. Impensabile, senza una piena integrazione dei mercati dei capitali soddisfare il fabbisogno di 620 miliardi/anno (al 2030) stimati in Europa per raggiungere l’obiettivo di neutralità climatica al 2050. E senza sforzi finanziari comuni e concordati tra Stati membri, la corsa agli investimenti pubblici e privati necessari per la transizione verde rischia di allargare le divergenze economiche all’interno della Ue”.



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