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Vi spiego tutte le contraddizioni dei 5 Stelle in politica estera. Scrive Polillo

Negare il sostegno militare all’Ucraina, manifestare stanchezza nei confronti di un popolo costretto a resistere, significa solo auspicare la sconfitta di Zelensky e lavorare per la vittoria militare del Re di Prussia. L’Ungheria e la Cecoslovacchia insegnano. Quindi attenti a utilizzare certe parole d’ordine. Sono armi nella mani dei nemici della libertà. Il commento di Gianfranco Polillo

Sarà stato pure “un voto poco settario”, come scrive Antonio Polito sul Corriere della Sera. Innegabile il fatto che i 5 Stelle, alla fine abbiano votato a favore della missione Aspides, dopo aver a lungo battagliato in commissione. Difficile dire se la folgorazione sulla Via di Damasco sia avvenuta solo dopo l’ulteriore assicurazione che la stessa missione aveva “esclusivamente” carattere difensivo. Cosa ch’era nota – dati i vincoli posti dalla Costituzione italiana – fin dall’inizio. Rimane il sospetto che a spingere nella giusta direzione abbia contribuito il peso delle prossime elezioni abruzzesi. Sarebbe stato difficile presentarsi con un “campo largo” spaccato come una mela su un argomento così delicato, come quello dell’attacco terroristico dei ribelli Houthi contro le navi inermi della flotta mercantile. Il problema è capire se alla base di questa scelta sia, anche, un ripensamento più complessivo. O se invece si sia trattato solo di una piccola svolta contingente.

Il dubbio nasce dall’esame degli ultimi avvenimenti. “È chiaro che per noi – aveva tuonato Giuseppe Conte nell’intervista rilasciata a La Stampa solo tre giorni fa – dire che bisogna perseguire la vittoria militare sull’Ucraina, come c’è scritto nella risoluzione Ue, e pensare di destinare 5 miliardi in armamenti a Kyiv è una linea insostenibile”. Enunciato talmente netto da spingere il quotidiano torinese a titolare: “L’Ucraina non può vincere, la linea del Pd è sbagliata, in Abruzzo aria di rimonta”. Il tutto condito, nella migliore delle ipotesi, da una grande piccola bugia. Nella risoluzione di Strasburgo, predisposta da Michael Gahler (primo firmatario), non si parlava minimamente di “vittoria militare”. Al punto 10 si ribadiva solo la necessità di continuare a fornire gli “aiuti militari all’Ucraina per tutto il tempo necessario e in qualsiasi forma necessaria per la vittoria”. Una vittoria che nessuno sogna possa essere “militare”.

Nelle guerre del Terzo millennio, fermo rimanendo – checché ne dica Dmitrij Medvedev – l’impossibilità di far ricorso all’atomica, vince chi resiste un minuto di più del proprio nemico. Così è avvenuto in Afganistan a spese delle truppe sovietiche d’invasione, mandate in appoggio al governo fantoccio della Repubblica Democratica dell’Afghanistan (RDA). Il conflitto durò dieci anni: dal 1979 al 1989. Ma, alla fine, i mujaheddin, continuamente riforniti di armi da parte di numerosi Paesi (gli Usa soprattutto) occidentali, costrinsero l’armata rossa a ritornare in Patria con le pive nel sacco. Successivamente quelle stesse armi furono rivolte contro gli Stati Uniti ed i talebani vinsero ancora una volta la partita.

Nel Vietnam, seppure a parti rovesciate, era successa la stessa cosa. Da un lato i Vietcong, aiutati dal movimento comunista internazionale, dall’altro i francesi prima e gli americani poi. Quella guerra – la “sporca guerra” – non fu vinta sul piano militare, ma su quello politico. Il fronte di lotta, che si estese nel cuore stesso dell’America, costrinse la più forte potenza occidentale ad abbandonare il campo. La stessa cosa rischia di ripetersi in Israele. Dove gli avvenimenti di Gaza, a causa della violenza delle devastazioni ed il numero dei morti tra i civili, stanno oscurando le ragioni originarie della guerra contro Hamas: quell’ignobile carneficina, con il contorno di stupri e di violenze indescrivibili verso uomini inermi, donne e bambini, che ancora brucia la coscienza del Mondo.

Forse l’invasione dell’Ucraina rappresenterà un’eccezione? Si lasci ai vari laudatores di Putin il sofismo delle pseudo giustificazioni storiche. Argomenti inconsistenti. In Ucraina non c’era nessun Governo democratico da difendere, com’era avvenuto in Afganistan. Non c’era nessuna politica di “containment” (la vecchia dottrina Truman che segnò tutto il periodo della “guerra fredda”) da sbandierare, come nel caso del Vietnam. C’è solo la storia di un Paese, come la Russia, che, nei secoli, non ha mai conosciuto uno sviluppo democratico. Ma le cui oligarchie – dagli zar a Putin passando per l’Unione sovietica – hanno sempre perseguito, pur nella diversità delle posticce giustificazioni ideologiche, il sogno egemonico della conquista.

Una costante che risale ai tempi di Pietro il grande, che segnò il dominio dei Romanov e che si combinò costantemente con l’incapacità, salvo rare eccezioni, di garantire al proprio popolo una vita adeguata alla potenza dell’impero. Elementi ritornati in quest’epoca moderna. Oggi la Russia ha una popolazione di poco più di 106 milioni di abitanti, una superficie di 17 milioni di chilometri quadrati. Poco più di un nono di tutte le terre emerse. La densità è pari a 8,54 di abitanti per chilometro quadrato. Quella in Italia, tanto per avere un termine di paragone, è 22 volte maggiore. Nel cuore di quell’enorme estensione, la Siberia (quasi l’80 per cento del territorio complessivo) ha una densità pari a 2,6 abitanti per chilometro quadrato. Che se ne deve fare Putin dell’Ucraina o della Trasnistria che Dmitrij Medvedev, dopo aver ribadito ch’essa appartiene alla Russia, ha già incluso nelle nuove mappe appositamente redatte. Aggiungere qualche spicciolo di chilometro quadrato a quella grande estensione, può forse compensare la morte di quelle migliaia di giovani russi mandati al macello?

C’è un’evidente irrazionalità in queste scelte che va, in qualche modo, analizzata. Ed essa coincide con il lato oscuro dei regimi autocratici. In cui la volontà di potenza del Capo, la sua particolare visione, riflesso dell’esperienza personalmente vissuta, non incontra i limiti imposti dagli istituti della democrazia. Ed ecco allora spiegato il fenomeno Putin, con le sue diversità rispetto alla stessa esperienza sovietica. Si pensi solo alla fase della “coesistenza pacifica”. Quella sua incapacità di cogliere l’immenso potenziale produttivo di un Paese, che non ha certo bisogno di marginali conquiste territoriali, per progredire e svilupparsi. Nelle sue viscere ha tutto ciò che servirebbe per bruciare ogni primato: gas, petrolio, uranio, terre rare, oro, argento, nichel, palladio e mille altre risorse naturali. Se la Cina avesse avuta solo un centesimo di quelle risorse avrebbe da anni surclassato l’intero Occidente. E invece la Russia, da quando è quotata presso il FMI, ha subito solo una gigantesca regressione. Il suo peso sull’economia mondiale è sceso dal 4,9 del 1992 al 2,9 per cento del 2023. E scenderà ancora, proprio a causa di una guerra che sta militarizzando l’intera economia.

La pericolosità di Putin è racchiusa in questo dilemma. Per questo è necessario reagire: invocando la pace, certamente. Ma soprattutto respingendo ogni ipotesi di resa, comunque camuffata. Come purtroppo, in Italia, alcuni stanno continuamente riproponendo. Negare il sostegno militare all’Ucraina, manifestare stanchezza nei confronti di un popolo costretto a resistere, significa solo auspicare la sconfitta di Zelensky e lavorare per la vittoria militare – questa volta sì – del Re di Prussia. L’Ungheria e la Cecoslovacchia insegnano. Quindi attenti a utilizzare certe parole d’ordine. Sono armi nella mani dei nemici della libertà. È successo altre volte. Anzi troppe volte. Come nel caso dei “Partigiani della pace”: il movimento direttamente organizzato dalla Terza Internazionale, nel corso degli anni ’50, contro l’Occidente ed in particolare la Nato.

L’invocazione alla pace era la foglia di fico che mascherava gli intenti eversivi di un movimento, teleguidato da Mosca, capace di catturare l’ingenuità di tanti intellettuali, ma non a caso diretto, in Italia, da Pietro Secchia. L’uomo che sognava la lotta armata, per riprendere un vecchio libro di Miriam Mafai. Acerrimo nemico di Palmiro Togliatti e dei suoi propositi di relativa indipendenza dalle direttive del Cominter. Da allora sono passati anni, ma sembra ieri. Cambiano i nomi, le situazioni evolvono, ma alla fine è sempre la solita giostra. Che cattura gli ingenui e coloro che soffrono di amnesia.



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