La strage di civili in attesa di cibo a Gaza ha aperto a una reazione ampia sulle condizioni umanitarie che la Striscia vive da quando Israele ha avviato l’invasione. Pressing per una tregua che possa permettere assistenza, scambio di ostaggi e aprire a ulteriori interlocuzioni. Roma e Washington allineate sulla linea da percorrere mentre Meloni va alla Casa Bianca
Il ministro Antonio Tajani ha invitato le forze israeliane a proteggere i civili palestinesi, dopo che i soldati israeliani hanno aperto il fuoco su una folla di cittadini nel nord di Gaza in attesa di assistenza alimentare. Ha chiesto poi di “accertare, con rigore, fatti e responsabilità” – lo stesso ha fatto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni – e soprattutto ha evidenziato che “le tragiche morti a Gaza richiedono un cessate il fuoco immediato per facilitare più aiuti umanitari”.
È la posizione più netta presa dall’Italia sin dall’inizio di un conflitto in cui Roma è sempre stata al fianco di Gerusalemme, e arriva alla vigilia delle missione a Washington di Meloni. Come presidente del G7 quest’anno e come alleato americano, la premier italiana è ospite oggi alla Casa Bianca, e il tema mediorientale è uno di quelli in cima all’agenda. La situazione rischia di essere incontrollata, oltre il segno, e sia Ue che Usa chiedono responsabilità a Benjamin Netanyahu. Anche sull’onda di ciò che il G7 rappresenta agli occhi del mondo.
Dozzine di dichiarazioni simili a quelle del governo italiano sono piovute da governi e organizzazioni internazionali, da associazioni, media e think tank. È come se si stesse aspettando un click per innescare una reazione corale sulle condizioni umanitarie disastrose, sebbene ben note, in cui circa due milioni di civili sono costretti a vivere nella Striscia da quando Israele ha avviato l’invasione. Da sempre difeso come vittima di un attacco vile e sanguinoso, l’attentato del 7 ottobre, lo Stato ebraico rischia di subire un irrecuperabile danno di immagine per via della “reazione sproporzionata”, per usare un’altra definizione di Tajani (del 13 febbraio).
Secondo il presidente statunitense, Joe Biden, la vicenda delle vittime durante la distribuzione degli aiuti umanitari (oltre 100, più settecento feriti, ma ancora si sa poco riguardo alla dinamica), complica la tregua in fase di definizione per il rilascio di alcuni degli ostaggi che Hamas aveva ignobilmente rapito il 7 ottobre. La Casa Bianca è indispettita perché da settimane sta chiedendo al governo israeliano un piano di gestione e sicurezza per le aree della Striscia dove le operazioni contro Hamas sono concluse e di evitare di colpire i componenti di Hamas che accompagnano i convogli degli aiuti – per non rischiare uno “scenario Mogadiscio”. Il piano non c’è e Washington lo ha pubblicamente riaffermato anche ieri, dopo la triste vicenda. Avvenuta per altro nelle stesse ore in cui un gruppo di coloni ha provato a entrare nel territorio di Gaza, ma sarebbe stato dissuaso dall’esercito israeliano.
Biden ha fatto il punto sullo stato delle ultime trattative — che si sono svolte a Parigi nei giorni scorsi — con l’emiro del Qatar e con il presidente egiziano. Statunitensi, egiziani e israeliani negoziano con Hamas, che viene rappresentata tramite i qatarini. Washington pressa, vuole chiudere l’accordo e i cento morti di giovedì sono testimonianza di questa urgenza. Finora si diceva che sono stati compiuti piccoli progressi nei colloqui sugli ostaggi, anche se sono rimaste lacune significative, e c’è il rischio che quanto accaduto nelle scorse ore possa far saltare il tavolo. La proposta in discussione dovrebbe portare Hamas a liberare circa 40 ostaggi in cambio di un cessate il fuoco di sei settimane e il rilascio di circa 400 prigionieri palestinesi detenuti da Israele.
Questo scambio ha un valore complesso. Il lato ovvio è quello del rilascio dei rapiti, molti dei quali sono civili. Poi c’è la tregua, che permetterebbe di alleviare la pressione bellica nella Striscia e far fluire aiuti umanitari in quantità e sicurezza maggiore. Infine c’è un aspetto ancora più ampio: il tentativo di allargare la tregua a un cessate il fuoco definitivo. Su questo, Israele (consapevole dell’idea) si è già espresso più volte. È una posizione dovuta quella della governo Netanyahu, che affida alla guerra e al successo contro Hamas gran parte della sua attuale narrazione. Tuttavia non è escluso che con il procedere degli eventi le cose possano cambiare: per questo si corre per avviare la tregua.
Della necessità di fermare la guerra si parla ovunque. Israele è sempre più isolato nel procedere ai combattimenti su vasta scala — mentre avrebbe ampio sostegno su una campagna mirata e senza quartiere contro la leadership di Hamas. La devastante situazione umanitaria è un elemento di pressing anche da parte dei Paesi della regione del Golfo, che mandano messaggi ambigui sulla normalizzazione con Israele. Se infatti viene ancora considerata come elemento decisivo delle dinamiche regionali, escono segnali continui sull’impraticabilità di progettazioni a lungo termine se continuerà il massacro di palestinesi.
Samantha Power, administrator del programma Usaid che si trova nella regione, ha detto mercoledì che era “assolutamente chiaro che mentre le condizioni continuano a deteriorarsi per il popolo di Gaza, due attraversamenti non sono sufficienti”. Intende gli ingressi dal varco di Kerem Shalom e dal valico di Rafah (città al confine con l’Egitto in cui per altro potrebbe partire presto una nuova offensiva di terra). “Stiamo parlando con i funzionari israeliani della necessità di aprire molto più attraversamenti, molto più passaggi a Gaza, in modo che l’assistenza umanitaria necessaria di vitale importanza possa essere drammaticamente aumentata. Questa è una questione di vita o di morte”, ha aggiunto Power nell’ennesima dichiarazione su un argomento che divide sempre più l’atteggiamento israeliano (dove le chiusure sono viste come necessità di sicurezza per evitare che i terroristi di Hamas usino la situazione a proprio vantaggio) dalle sensibilità internazionali.