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Cosa resta della Destra nell’era di Giorgia Meloni. Tarchi e le tre età della fiamma

Per l’ascesa di Giorgia Meloni a contare sono stati il crollo del sistema partitico della “prima repubblica” e il ruolo svolto da Berlusconi nel riammettere i neofascisti nel perimetro della legittimità governativa. Avrebbe senso una destra ispirata a una visione europeista indipendente dalla subalternità alla strategia statunitense? Una destra, no. Una forza politica che, partendo dall’originaria identità missina, avesse puntato ad oltrepassare il discrimine sinistra/destra, sì. Conversazione con il politologo Marco Tarchi

È un excursus sulla palingenesi della destra nelle sue diverse fasi storiche. Dal Movimento Sociale Italiano, la classe dirigente maturata all’ombra di Giorgio Almirante, fino all’esperienza che ha portato il partito “nipote” – Fratelli d’Italia – a esprimere il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Volti, ritratti e svolte più o meno repentine nell’orientamento in politica estera. Di questo e molto altro si parla nel libro “Le tre età della Fiamma”, del politologo Marco Tarchi (intervistato da Antonio Carioti) edito da Solferino e del quale l’autore ha parlato a Formiche.net. 

Cos’è cambiato in termini di orizzonte valoriale, nell’arco temporale della destra che lei descrive?

Molto più di quanto generalmente non si pensi. Rispetto alle intenzioni dei fondatori del Msi, in cui era ancora forte la convinzione che il fascismo avesse rappresentato una rottura rivoluzionaria con il passato, un’alternativa a capitalismo e comunismo, la rottura è stata netta, e in tempi brevi. Già alla metà degli anni Cinquanta il partito puntava a conquistare i consensi di quella parte della società italiana che era legata a princìpi conservatori. Al suo interno, però, soprattutto nella base ma anche in molti quadri intermedi, l’idea dell’“alternativa al sistema” persisteva: vaga nel profilo ma forte nel richiamo emotivo. Quella spinta è progressivamente venuta meno e lo stesso giudizio sull’esperienza fascista si è fatto più sfumato, se non critico, tanto che oggi si può parlare di Fratelli d’Italia come di un partito sostanzialmente a-fascista. Alcune costanti sono però rimaste: un forte nazionalismo, oggi declinato per ragioni d’immagine come patriottismo, un culto dello Stato che non è stato intaccato dalle concessioni alla retorica populista dell’era della rincorsa al successo di Salvini, una mentalità legge-e-ordine.

A un certo punto c’è lo spartiacque di Fiuggi. Ma la domanda resta: fu vera svolta? 

Per un verso, sì. Perché, pur essendo dettata da motivi tattico-strategici, obbligò gran parte della classe dirigente ad accettare una presa di distanze dal fascismo, ad esprimere in pubblico giudizi critici sul Ventennio. Può darsi che, come alcuni sostengono, per molti fosse un maquillage, una mascheratura. Ma è noto che quando per molto tempo si è costretti a recitare un ruolo, alla fine ci si innamora e lo si fa proprio.

La parabola politica di Fini fu ingloriosa, anche se adesso gioca un po’ il ruolo del padre nobile della destra in qualche modo. Quale fu il suo ruolo, alla luce degli eventi?

Quello di trovarsi nel momento giusto nel posto giusto. Fini aveva già dimostrato di non possedere una visione strategica e anche dopo lo sdoganamento voluto da Berlusconi ha commesso anche gravi errori tattici, come l’aver provocato le elezioni anticipate del 1996 che estromisero per cinque anni dal governo il suo partito e la coalizione di cui faceva parte, o aver azzardato la disastrosa avventura della convergenza con Segni e Taradash alle europee del 1999. E soprattutto ha fatto capire, con una serie di mosse estemporanee, di badare molto più all’ambizione personale che alle sorti del partito che dirigeva. Ma quando si aprì la cataratta di Tangentopoli, al comando c’era lui, e questo gli ha consentito di cancellare in fretta il ricordo della promessa di un “fascismo del 2000” e di atteggiarsi a rinnovatore della destra. Cosa che non è stato, avendo preferito la via dell’abiura a quella, ben più faticosa, di una revisione critica. Il completo fallimento elettorale del suo partitino ha dimostrato che gli ex seguaci lo avevano capito.

È vero che senza di lui Meloni non avrebbe fatto il percorso che l’ha portata a diventare premier? 

Non direi. A contare sono stati il crollo del sistema partitico della “prima repubblica” e il ruolo svolto da Berlusconi nel riammettere i neofascisti nel perimetro della legittimità governativa. Fini è stato un figurante, sia pur non dei minori, di una vicenda la cui trama è stata scritta da altri. E in un certo senso Meloni ha avuto successo perché è sembrata a molti elettori di Alleanza nazionale una che rivendicava il passato che Fini aveva tradito. Poi le cose hanno preso pieghe ulteriori e diverse, ma non è stata certo l’ombra del presunto “padre nobile” a favorire il percorso dell’attuale presidente del Consiglio.

La svolta atlantista di Meloni per alcuni viene interpretata come un ‘tradimento’  dei valori originari della destra identitaria. È così? Ma, soprattutto, avrebbe ancora senso una destra di quello stampo?

Sull’antiamericanismo neofascista si è molto favoleggiato. All’origine era certamente uno stato d’animo diffuso, ma la Guerra fredda lo ha ben presto stemperato e a metà anni Sessanta il Msi si era già schierato nel campo “occidentale”, sperando anzi che quella collocazione lo avrebbe aiutato a riacquistare legittimità nei giochi politico-parlamentari. Una corrente terzaforzista c’è sempre stata, nel Msi come in An, ma in posizioni decisamente minoritarie. Si potrebbe dire che il tradimento dei valori originari (espressi in uno degli slogan della campagna elettorale del 1948, che recitava con un eccesso di ambizione “Tre sono le vie che puoi scegliere: Usa, Urss, Msi”) è avvenuto quasi subito. Un discorso diverso andrebbe fatto sulla cospicua componente giovanile, che nella stragrande maggioranza si è sempre schierata contro quelli che venivano chiamati gli imperialismi anti-europei, e anche dopo la scomparsa dell’Unione sovietica ha conservato quella diffidenza, rivolta ora al “gendarme planetario”. Ma i giovani, nel Msi e in An, sono sempre stati considerati manovalanza. E, a parte i dirigenti che si sono fatti cooptare e si sono adeguati, non hanno mai avuto voce in capitolo, dal 1954 in poi. Avrebbe senso una destra ispirata a una visione europeista indipendente dalla subalternità alla strategia statunitense? Una destra, no. Una forza politica che, partendo dall’originaria identità missina, avesse puntato ad oltrepassare il discrimine sinistra/destra, sì. E l’ondata populista che ha coinvolto quasi tutti i Paesi europei negli scorsi due decenni fa pensare che un soggetto di quel tipo avrebbe potuto trovare uno spazio non indifferente.

Non mancarono, anche nella storia della Destra, divisioni e correnti. Cosa resta, oggi, di quel messaggio incarnato ad esempio da una figura storica come quella di Pino Rauti? 

Ben poco. Quel messaggio aveva una forte capacità di suggestione nell’ambiente missino quando la routine parlamentare non faceva balenare nessuna prospettiva di uscita dal ghetto e l’unico diversivo era lo scadimento in revival nostalgici (si pensi alle pubbliche celebrazioni de centenario della nascita di Mussolini indette da Almirante nel 1983). E, non casualmente, la prospettiva che si legava al progetto della corrente rautiana era quella di una modernizzazione radicale del linguaggio e delle tematiche da affrontare che comportava il superamento del richiamo alla destra, il rilancio in forme nuove del richiamo alla “terza via” postliberale e postcomunista. L’aprirsi del varco verso la partecipazione a un governo attraverso l’aggregazione al centrodestra ha liquidato quell’opzione, che oggi vive in forme molto marginali, e spesso anacronistiche, in ambienti giovanili radicali.

La Destra fu anche classe dirigente e pensiero. Oggi si fatica a scorgerne di classe dirigente. Si può invertire la rotta? 

Per riuscirci, sarebbe indispensabile – accanto ad un accumulo di esperienza nel lavoro sul campo nelle istituzioni e nella società civile, che forse verrà, un po’ alla volta – l’elaborazione di una coerente proposta culturale “controegemonica”, di cui, al di là dei proclami e della strategia di accaparramento di posti in Fondazioni e consigli di amministrazione, non vedo neanche l’ombra. I richiami a un generico conservatorismo non possono bastare a costituire un’alternativa all’odierno Zeitgeist, uno spirito del tempo intriso di idee progressiste che, attraverso le strutture educative, si va inculcando sempre più profondamente nelle menti. I dati elettorali non ne danno ancora pieno riscontro, ma l’avvicendarsi delle generazioni rischia, da questo punto di vista, di dare alla destra sorprese ben poco gradevoli.

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