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Contro l’immobilismo economico l’Italia punti alla cultura. Scrive Monti

La nostra cultura, fatta di tantissimi giovani di talento che navigano nei settori dell’arte, della comunicazione, dell’editoria, dell’imprenditoria, può aiutare la nostra economia non tanto in termini di valore aggregato, quanto in termini di dinamismo reale dell’economia. Il commento di Stefano Monti

In questi giorni sta facendo molto discutere la notizia che le stime dell’economia russa, nonostante le sanzioni europee, non solo cresce, ma cresce anche molto di più di Usa e area Euro.

Il World Economic Forum ha infatti stimato per il 2023 una crescita al 3% per la Russia, contro il 2,5% per gli Stati Uniti e lo 0,5% per l’Unione Europea, inclusa la Germania, con il suo -0.3%.

La fotografia scattata presenta anche un dettaglio sulla nostra economia, che viene condannata ad un sostanziale immobilismo.

Si tratta di un dato aggregato, ma che riflette l’esigenza di un rinnovamento che, da troppo tempo, viene rimandato da legislatura a legislatura.

Ci sono stati importanti miglioramenti negli ultimi anni, va detto. Miglioramenti in termini di semplificazione burocratica legata all’apertura di nuove imprese; avanzamenti in termini di digitalizzazione di alcuni processi della Pubblica amministrazione; c’è stato qualche miglioramento in termini di proattività da parte dei cittadini; c’è stato il grande slancio del Pnrr (anche se in pochi l’hanno davvero vissuto).

Eppure, nonostante questo gran lavoro, queste riforme e riformine, nonostante il precedente Whatever it takes di Draghi, la nostra economia cresce a meno dell’1%, all’interno del quale ci sono anche le grandi transizioni settoriali che hanno caratterizzato il nostro Paese negli ultimi anni.

In quello 0,7%, in altri termini, c’è anche la grande crescita delle economie legate al turismo (che presentano un elevato margine di incertezza), ci sono i finanziamenti per le start-up (che per loro natura presentano un tasso di mortalità elevato), ci sono i super bonus e tutte quelle imprese che sono nate e morte all’interno di questa filiera.

C’è la spesa pubblica, ci sono i progetti di rigenerazione urbana. Ci sono le grandi opere. Ci sono gli impatti dei fondi internazionali provenienti dalla programmazione comunitaria o da investitori esteri.

Ci sono i rendimenti dei risparmi dei cittadini. C’è il valore degli immobili.

Certo, possiamo darci una bella pacca sulla spalla e affermare che, a fronte della congiuntura, i risultati della nostra economia portano comunque ad una crescita, mentre economie genericamente considerate più robuste, come quella tedesca, nelle stime del Fondo Monetario Internazionale presentano un segno negativo.

Possiamo e dobbiamo farlo. Ma dobbiamo anche pensare che a differenza delle economie internazionali, il nostro Paese presenta moltissimi livelli di delicatezza in più, e che quello 0,7%, nei prossimi anni, potrebbe non bastare affatto a coprire le criticità del nostro sistema democratico nel suo complesso. Abbiamo una condizione demografica critica, che negli ultimi anni è stato più oggetto di slogan che di politiche reali legate, ad esempio, alle pensioni, ai costi della sanità per la terza età, ai costi della solitudine, alle dimensioni economiche da garantire ai disabili o agli invalidi civili.

Abbiamo una debolezza sistemica sul lato delle nascite, ma il nostro Paese, al di là del rifare gli asili con i soldi del Pnrr, e al di là di qualche “bonus” da erogare a famiglie con figli, ha continuato ad attuare politiche che inducono le persone a rimandare sempre più la creazione della famiglia: un Paese di laureati senza lavoro, che poi diventano auto-imprenditori o Partita Iva, e che non se la sentono di avere figli se non hanno una garanzia almeno a 5 anni delle proprie condizioni lavorative.

Abbiamo una ricchezza immobiliare che in moltissimi casi è superiore alle disponibilità reddituali e dei risparmi: ciò significa che per molti, gli immobili ereditati non sono altro che un costo (manutenzioni, tasse, ecc.) che bisogna cercare di minimizzare, dato che il mercato immobiliare in molte aree è al ribasso, e viene spesso trainato da immobili a uso turistico.

Abbiamo una debolezza infrastrutturale, con un numero enorme di piccoli Comuni che tenderanno ad essere sempre più Comuni quasi-fantasma, per i quali, a parte poche idee, non è stata davvero avviata un’azione condivisa e concreta.

Abbiamo troppe imprese sottocapitalizzate, e una debolezza del sistema del credito, che viene soltanto in parte sopperita dall’erogazione di fondi pubblici a sostegno.

E quello che da decenni non pare esser chiaro, è che per risolvere queste condizioni non bastano soldi, servono idee. Serve una visione politica che impegni il Paese in una direzione pluri-mandataria: il che di certo non significa favorire l’affermazione di un sistema di tipo feudale con il notabile di turno che rimane in carica a vita, significa piuttosto individuare una linea di intervento che superi le differenze partitiche, sfruttando quantomeno il fatto che tali differenze non hanno ormai più nulla di politico.

Come Paese, non siamo nemmeno in grado di agire in modo unitario per evitare che gran parte dei nostri risparmi vengano tradotti all’estero da quell’esercito di manutentori, addetti alle pulizie e badanti che, trovando nel nostro Paese soltanto un’opportunità di lavoro, e non un luogo in cui creare una nuova vita.

L’immobilismo della nostra situazione economica si confonde e si traduce in una sorta di immobilismo sociale e culturale: ne pagano pegno le nostre proposte artistiche, le nostre invenzioni in termini di design, i nostri brevetti e, in generale, le nostre idee.

L’Italia è ormai una vecchia signora verso la quale si nutre un grande rispetto e spesso una grande ammirazione. Ammirazione che è però per i vecchi fasti. Per quello che fu.

La nostra cultura, fatta di tantissimi giovani di talento che navigano nei settori dell’arte, della comunicazione, dell’editoria, dell’imprenditoria, può aiutare la nostra economia non tanto in termini di valore aggregato, quanto in termini di dinamismo reale dell’economia.

Di certo, però, non può farlo se non si costruisce un percorso che consenta ai tantissimi talenti del nostro Paese di esprimere il meglio delle proprie potenzialità. Ed è una condizione che si raggiunge soltanto se, per una volta, i nostri decisori pubblici avviassero una politica che guardi oltre il proprio mandato.

E invece, non facciamo altro che giocare a figurine: l’album rimane lo stesso, cambiano solo le foto dei giocatori.

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