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Il viaggio europeo (con Meloni) in Egitto incrocia gli interessi del Piano Mattei. Melcangi spiega perché

La partnership strategica tra Europa ed Egitto serve ad assistere Il Cairo in mezzo a una buia crisi economica, che potrebbe destabilizzare il Paese e innescare problemi geopolitici in un’area altamente strategica, con il rischio anche di fenomeni migratori. “L’Egitto è too big to fail”, spiega Melcangi (Sapienza/ACUS)

La semplificazione con cui la dottrina statunitense raggruppa il Nordafrica e il Medio Oriente nella cosiddetta regione “Mena” trova sintesi effettiva e geostrategica nell’Egitto, Paese nordafricano ma legato geograficamente — dunque anche dal punto di vista geopolitico — alle dinamiche del Medio Oriente. E mai come adesso, col Cairo affetto da un’endemica crisi economica, si avverte il peso di questa connessione. L’Egitto risente direttamente della destabilizzazione mediorientale prodotta dalla guerra israeliana a Gaza sia lungo il confine terrestre, dove Rafah rischia di diventare il centro della più drammatica crisi umanitaria al mondo, sia in quello marittimo meridionale. È lungo il Mar Rosso infatti che la crisi si è regionalizzata, con gli Houthi che hanno destabilizzato il corridoio che connette Europa e Asia, usando come ragione la vendetta contro Israele (anche se poi non hanno colpito solo interessi israeliani). Non solo, perché sempre da sud, dal Sudan, sono arrivati 9 milioni di sfollati a gravare sul contesto socio-economico egiziano.

È questo il quadro che attende la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e i premier di Italia, Giorgia Meloni, Grecia, Kyriakos Mitsotakis, e Belgio, Alexander De Croo, protagonisti del formato “Team Europe” che domenica sarà al Cairo per firmare un accordo di partnership strategica con l’Egitto, con il quale si dovrebbero smuovere fino a 7,4 miliardi di euro. I quattro europei incontreranno il leader locale Abdel Fattah al Sisi, e stringeranno un’intesa che segue patti simili fatti con Turchia, Mauritania e Tunisia (dove von der Leyen ha viaggiato lo scorso luglio affiancata da Meloni e dal primo ministro olandese, Mark Rutte, per stringere su un’intesa che è stata anche criticata).

“Il viaggio serve a formalizzare un partenariato strategico che tocca vari ambiti, dalla cooperazione politica alle relazioni economico-commerciali, dalla cooperazione energetica fino ovviamente al tema dell’immigrazione: temi che rispecchiano quelli che dovrebbero essere per altro i pilastri del Piano Mattei e dunque l’Italia vi trova un incrocio di interessi con l’Europa”, spiega Alessia Melcangi, docente di Storia contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente alla Sapienza di Roma e non-resident fellow dell’Atlantic Council.

“L’idea – continua – è andare in Egitto con qualcosa in più da offrire oltre all’esternalizzazione delle frontiere, ma va anche detto che l’Ue segue il protocollo adottato con la Tunisia, dove la questione migratoria era di fatto più stringente”. Ha funzionato quell’accordo? “Secondo i dati Frontex i flussi migratori dal Mediterraneo centrale sono diminuiti. Ed è vero che l’Ue non può trasformarsi in una banca che finanzia regimi amministrativi che contraggono la democrazia solo per gestire i migranti, ma da un punto di vista pragmatico i risultati iniziano a esserci. E la tenuta dei confini è un elemento che peserà sul voto delle Europee comunque”.

C’è in generale un mutuo interesse, che però con l’Egitto sembra essere legato a molto di più dell’immigrazione – che semmai diventerebbe un fenomeno secondario, legato al collasso economico di un Paese da 107 milioni di abitanti. “L’Egitto è di fatto too big to fail, un Paese strategicamente troppo importante per pensare che collassi sotto il peso della crisi economica che sta vivendo. Anche a questo si legano le decisioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, o dell’Unione Europea e dei Paesi di Golfo, di sostenere l’emergenza. Una percezione chiara anche negli Stati Uniti, che infatti hanno lavorato con le istituzioni economico-finanziarie internazionali. Quasi inutile dire il valore che Suez ha per la geo-economia globale: tanto che stiamo subendo già gli effetti della destabilizzazione in corso”, spiega la docente.

La situazione economica egiziana è complessa: sul Paese grava un debito che secondo i dati della World Bank di settembre 2023 ammonta a 164,5 miliardi di dollari. Il governo non può ridurre i sussidi per ragioni di equilibrio nel patto sociale, e Sisi non può permettersi certe riforme economiche, come per esempio allontanare l’esercito dai centri di potere – anche questo per ragioni di gestione degli equilibri interni alla leadership. Il tasso di inflazione annuale è salito al 36% a gennaio, senza possibilità di contrazione entro breve tempo – anche perché la Banca centrale ha deciso di rendere flessibile il tasso di cambio della sterlina egiziana (ormai scambiata a 50 per dollaro, contro i 30 medi del 2023).

“Su questo c’è un peso migratorio che riguarda gli afflussi nel Paese di persone dall’Africa centrale e meridionale, a cui poi si somma il rischio che si aprano migrazioni da Rafah, complicando la già traballante sicurezza del Sinai”, aggiunge Melcangi. Che poi spiega come ci sia un delicato equilibrio tra la retorica delle autorità religiose, le volontà della popolazione e le necessità della leadership. In sostanza: i cittadini sono d’accordo sul contenere il flusso migratorio palestinese, perché comprendono che può essere un aggravio in un momento economico infelice, ma la  piazza sottolinea una linea panarabista critica con Israele, con cui però Sisi deve mantenere collegamenti. Il leader egiziano vuole sfruttare la centralità raggiunta nei negoziati attorno al dossier (anche come standing internazionale), ma deve giocare di equilibrio, perché un’emergenza migratoria significherebbe scontentare i suoi cittadini ed essere accusato dagli egiziani di essere stato troppo morbido con Israele.

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