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Il Fattore K contro Salvini e Conte? L’analisi di Sisci

Non sono in risultati elettorali al voto delle regionali che condizioneranno il dibattito politico. Un possibile futuro veto al governo per i filo putiniani potrebbe spingere tutte le dinamiche politiche verso il centro e obbligare Meloni a cambiare pelle

La differenza del 7%i tra centrodestra e centrosinistra nelle recenti elezioni regionali in Abruzzo, dopo la Sardegna prova, come ha sottolineato la stampa, che non c’è una tendenza generale italiana in un senso o nell’altro.

Ciò detto in entrambi i casi né vincitori né vinti hanno spiegato motivi di vittoria o sconfitta e adesso il Paese scivola verso le regionali in Basilicata in uno stato confusionale. Il risultato lucano avrà un impatto nazionale di sicuro, ma per motivi misterici, non spiegati in un quadro più generale. È quasi come si vincesse o perdesse con i numeri al lotto, per un patto tradito o meno con la dea bendata.

Più praticamente vittoria o sconfitta vengono attributi alla scelta del candidato. Egli nasce da una complicata alchimia di urgenze dei partiti locali e delle direzioni di Roma. È sempre stato così, senza dubbio, ma forse in passato ciò che teneva in linea centro e periferia erano diversi progetti generali e particolari per la regione. Oggi i progetti sono molto più labili, evanescenti e si va a caccia di voti con più disinvoltura.

Non è solo un indebolimento dei valori ideali dei partiti. C’è anche a un rafforzamento della realtà locale che si consolida intorno al governo della regione. Oggi un governatore può restare in carica 10 anni, sette volte la vita media di un premier. Inoltre i suoi poteri sono più “tondi”, chiari di un governo romano. Certo il presidente del Consiglio è importantissimo, ma altrettanto sicuramente un governatore regionale è più potente di un normale ministro.

Ciò crea una situazione di fatto “feudale”. Nel Medio Evo il re era importante solo nella misura in cui riusciva a raccogliere intorno a sé i baroni, che dovevano essere coltivati uno per uno in complicati giochi di lealtà e scambi. Del resto, senza la benedizione e le risorse reali, i baroni erano più deboli, esposti agli attacchi degli altri baroni. Dinamiche simili sembrano in atto in Italia oggi tra governo centrale e autorità regionali. I capi partiti sono coinvolti in prima persona nella scelta del candidato “barone” locale, ma questa personalizzazione della scelta indebolisce la struttura di governo centrale.

Conferma di ciò si vede nell’accentramento dei poteri nell’ufficio del premier. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni accentra a Palazzo Chigi, come altri suoi predecessori per compensare altre difficoltà di amministrazione. Ma è come una vite di ferro che si stringe sul legno – tiene al momento ma con le inevitabili sollecitazioni lacera il legno. Quindi bisogna stringere di più e lacerare ancora di più fino a quando tutto sarà spaccato e non ci sarà più da avvitare.

In questo processo il Parlamento, luogo centrale della democrazia italiana, è spesso semplicemente saltato, certamente poco coinvolto nelle dinamiche capi partito (o premier) – aspiranti governatori.
Ma l’estraneità del Parlamento diventa estraneità dei votanti. Se la scelta dei candidati è personale a quel punto si allontana dalla vita delle persone non coinvolte. Il fatto che elezioni locali, più vicine agli elettori, abbiano avuto un’affluenza intorno al 50% (a cui andrebbero sommate schede bianche o nulle) dimostra la debolezza della proposta fatta.

Inoltre avanzare a sussulti, una regione alla volta, ogni volta come una specie di referendum sul governo, sottopone il Paese a una costante nevrosi, una roulette politica a cui molti italiani devono disinteressarsi per mantenere un equilibrio psichico.

Più importante invece quello che sta accadendo all’estero. La leader della destra francese Marine Le Pen lunedì ha aggiustato la sua posizione riguardo alla Russia. In passato aveva simpatizzato con il presidente russo Vladimir Putin. Lei ora ha condannato “l’invasione dell’Ucraina” e ha detto che all’Ucraina va “il rispetto e sostegno francese”. Ha stemperato poi affermando che comunque la guerra dovrà finire con un negoziato con Mosca.

Il suo spostamento è una risposta all’iniziativa del presidente Emmanuel Macron che aveva schierato la Francia decisamente a favore dell’Ucraina nei giorni scorsi. Quindi Le Pen doveva scegliere se allargare la distanza con Macron e rischiare di passare da petainista (Petain fu il capo del governo che collaborò con la Germania nazista) o riavvicinarsi al presidente. Questo spostamento rafforza Macron, legittimandolo, ed è utile a Meloni già filo ucraina, poiché avvicina Le Pen alle sue posizioni.

Nelle stesse ore l’ex presidente Usa Donald Trump si è assicurato la nomination repubblicana ma ha pubblicato una dichiarazione molto controversa a favore della applicazione cinese TikTok. Subito dopo a maggioranza schiacciante il Congresso ha votato l’obbligo alla vendita della proprietà cinese della applicazione. Si sospetta che il miliardario Jeff Yass, azionista di TikTok, abbia promesso di pagare le spese legali di Trump in cambio del sostegno alla app. Trump potrebbe dover saldare circa 500 milioni (che forse non ha) di multa entro fine mese. Altre multe potrebbero arrivare prossimamente.

L’episodio getta una nuvola scura sulla candidatura di Trump poiché la posizione contro la Cina è forse l’unico elemento unificante del dibattito politico americano e TikTok è diventata una questione simbolo nazionale. Cioè, per quanto popolare Trump potrebbe rimanere ferito o schiacciato dalla controversia di TikTok.

È così una fortuna per Meloni che nel suo recente viaggio in America non abbia incontrato rappresentanti di Trump.

Ciò però complica la posizione del leader della Lega Matteo Salvini o di quello del M5S Giuseppe Conte, entrambi filo Putin e filo Trump. Senza l’uno e senza l’altro però destra o sinistra non vincono e tutto diventa difficile.

Potrebbe cominciare a riemergere un “fattore K” con l’approfondirsi delle posizioni sulla guerra in Ucraina e sulla Cina. Cioè come nella guerra fredda i partiti comunisti filo sovietici di Italia e Francia (e poi Spagna e Portogallo) erano liberi e legali. Ma era loro impedito di andare al governo. Un domani i filo-putiniani d’Italia potrebbero perdere il diritto di stare al governo.
Questa architettura rivitalizzerebbe la costituzione italiana, nata proprio dalla necessità escludere estrema destra ed estrema sinistra. In quel quadro politico non c’era l’autonomia regionale.

Un ritorno del fattore K ripropone però con forza la necessità di una convergenza al centro di tutte le altre forze a cominciare da Fratelli d’Italia (FdI) di Meloni. D’altronde se Meloni non affretta la sua conversione, rischia di essere superata in curva da Le Pen alla rincorsa di Macron sull’Ucraina.

Quindi è il quadro internazionale che condiziona quello italiano più delle elezioni regionali. Allora la riforma vera non è del premierato ma delle regioni, che forse devono fare un passo indietro, non avanti.


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