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Gaza, cinque mesi di guerra. Cosa c’è in gioco ora secondo Dentice

Per Dentice (CeSI), ci sono cinque piani interconnessi relativi alla guerra israeliana a Gaza: le evoluzioni del conflitto, le relazioni bilaterali Israele-Usa e quelle multilaterali tra Israele e la regione, la questione palestinese (ossia il futuro dell’Autorità), gli interessi dell’Iran. Tutto collegato, tutto a rischio “deterioramento”

“Lo scenario è paradossalmente più chiaro rispetto ai mesi scorsi, ma non per questo più lineare e di semplice risoluzione”, spiega Giuseppe Dentice, responsabile del Mena Desk del CeSI, con cui Formiche.net fa mensilmente un punto sullo stato della guerra israeliana nella Striscia di Gaza e sugli effetti che essa sta producendo nella inquieta regione mediorientale.

“L’attacco terrestre a Rafah, che Israele prevede per le prossime settimane, segnerà i prossimi passaggi sul campo dopo cinque mesi di guerra, ma sarà anche uno spartiacque per definire sviluppi sul piano politico-diplomatico internazionale”, spiega l’analista.

Il tema centrale è la crisi umanitaria, che l’Onu definisce “ormai al limite dell’invivibile”, una carestia in inesorabile evoluzione che l’offensiva su Rafah dovrebbe aggravare. Mentre Usa e Ue hanno già alzato la denuncia retorica sullo stato quotidiano che circa due milioni di persone stanno attualmente vivendo come effetto della guerra, sono partite iniziative come il lancio di aiuti umanitari paracadutati sulla Striscia o il tavolo di coordinamento “Food For Gaza” – promosso dall’Italia in partnership con Fao, Programma alimentare mondiale, Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. Sono manovre per forzare il blocco israeliano che finora ha impedito il fluire regolare degli aiuti nell’area invasa dopo l’orribile attentato compiuto da Hamas il 7 ottobre scorso, che ha dato via alla stagione di guerra.

Cosa succede ai gazawi rifugiati a Rafah, oltre un milione di civili, è un tema geopolitico. Molto difficile che possano tornare al nord, a Gaza, dopo che da lì sono scappati a Rafah durante l’avanzata israeliana. “È probabile che cerchino rifugio in Egitto, perché il confine è a pochi chilometri e il territorio egiziano teoricamente sicuro — ipotizza Dentice — ma dobbiamo essere consapevoli che questo innescherà una dinamica migratoria, che Il Cairo non vuole e non può accettare, anche per l’aggravio economico della gestione, che arriva in un momento di difficoltà sociale e finanziaria del Paese”. L’Egitto si è già preparato con muri di recinzione per contenere il flusso lungo i 14 chilometri di frontiera con Israele, e però può respingere i profughi palestinesi? “Difficile: l’Egitto fa parte dell’importante framework internazionale che lavora a livello di intelligence per liberare gli ostaggi rapiti da Hamas e, in generale, fa parte del sistema diplomatico attorno alla guerra; è inoltre coinvolto in trattative regionali e internazionali su prestiti più agevolati, come quelli che dovrebbe ottenere dall’Imf”.

È dunque in gioco il piano reputazionale del leader Abdel Fattah al Sisi? “Se si opponesse all’ingresso dei palestinesi, si farebbe una pessima pubblicità a livello interno e arabo-musulmano per non aver aiutato i profughi in difficoltà in quella che viene già descritta come una nuova Nakba. Differentemente, verrebbe compreso il suo impegno”, risponde Dentice.

Quanto emerge è una chiara insofferenza dell’Egitto, Paese arabo che ha storici rapporti con Israele, perché il peso della guerra ricade su equilibri, interessi, necessità, creando forzature. Ma Il Cairo non è solo, anche Qatar e Stati Uniti hanno iniziato da tempo a manifestare contrarietà rispetto alla situazione, lo dimostra la visita a sorpresa a Washington di Benny Gantz, politico centrista israeliano rientrato nel Gabinetto di guerra per senso di emergenza nazionale (e forse anche perché gli americani volevano un interlocutore più aperto del primo ministro Benjamin Netanyahu). “Il viaggio non autorizzato, che ha indispettito Netanyahu, non è stato una visita di cortesia — continua Dentice — ma bensì Gantz si è trovato davanti le pressioni dell’amministrazione Biden, con là vicepresidente Kamala Harris che da quanto emerge ha espresso direttamente un concetto: il sostegno incondizionato americano a Israele potrebbe non essere eterno, ed è funzionale a maggiore chiarezza sulla strategia bellica e soprattutto post-bellica. Al di là della dovuta verifica del caso sui termini del bilaterale, se la posizione espressa da Hsrris fosse verosimile sarebbe comunque molto forte”.

C’è un’oscurità contraddittoria del governo israeliano, con un non definito futuro ipotizzato per la Striscia, ma anche la continuazione di un piano di espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Il rischio è che questo lasci maggiore caoticizzazione e quello di Gantz potrebbe essere visto come un tentativo personale di affrancamento — e generale fornitura di garanzie personali — dal piano inclinato della situazione. “Anche perché, c’è un tema di rapporti di Israele con la regione, e sebbene nessuno voglia mettere in discussione gli Accordi di Abramo, le azioni di Israele stanno mettendo in difficoltà le aperture di credito nei suoi confronti da parte degli altri player arabi. C’è da capire il futuro della leadership, quindi, e poi gli equilibri interni collegati ovviamente anche al futuro dell’Autorità nazionale palestinese. Grandi incognite che portano tutti alla massima prudenza”.

In questo quadro, inoltre, c’è l’Iran, che ha capitalizzato dalla guerra e dalla crisi, rafforzandosi sia sul piano dei rapporti diplomatici, sia su quello militare, giocato tramite i vari proxy connessi al network dei Pasdaran. “Quello che accade nel Mar Rosso dimostra quanto alcuni di quei gruppi connessi all’Iran, come gli Houthi, giochino ovunque una partita semi-autonoma, mentre però altri, come Hezbollah e le milizie irachene, si muovono in modo più controllato, perché sanno che Libano e Iraq avrebbero maggiormente da perdere da un aumento dell’intensità del confronto”.

Dal disegno di Dentice, emergono dunque cinque piani che si intersecano: la guerra di Gaza, le relazioni bilaterali Israele-Usa e quelle multilaterali tra Israele e la regione, la questione palestinese (ossia il futuro dell’Autorità), gli interessi dell’Iran. Una matassa apparentemente intricatissima: cosa aspettarsi mentre andiamo verso il mezzo anno di guerra? “Siccome tutto è connesso, ogni singolo punto di avanzamento o deterioramento su un piano, rischia di alterare equilibri sugli altri. Lo scenario è in deterioramento costante, anche perché il governo israeliano sta cercando sempre di più di deviare le attenzioni verso un’internazionalizzazione della crisi, con una maggiore attenzione all’inserimento del Libano nella contrapposizione”.

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