Numerose dichiarazioni, a partire da quella di Macron sulle truppe, hanno svelato ciò che era evidente: è un nuovo scontro tra grandi potenze. Le conseguenze incideranno pesantemente sull’ordine (o disordine) internazionale futuro. L’analisi del professor Luciano Bozzo
Nell’ultimo mese numerose dichiarazioni pubbliche di leader nazionali e di istituzioni europee, a partire da quella clamorosa del presidente Emmanuel Macron sul possibile invio di truppe nel teatro ucraino, hanno “svelato” ciò che era evidente. Quella in atto da oltre due anni non è solo, o tanto, una classica guerra di aggressione di una potenza a danno di un Paese vicino. È piuttosto un nuovo scontro tra grandi potenze, che ha avuto inizio, esattamente come altri simili del secolo scorso, con l’aggressione di una di esse a un avversario regionale minore. Un’aggressione accompagnata dalla sottovalutazione delle reazioni di altre potenze e delle possibili conseguenze.
Fu questo il caso della Prima guerra mondiale, con l’attacco dell’impero austro-ungarico alla Serbia, e ancora della Seconda, con quello della Germania nazista alla Polonia. Simile è anche il caso della guerra di Crimea, iniziata nel 1853 con l’attacco russo all’impero ottomano avviato verso la definitiva crisi. Dall’anno seguente Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna intervennero a fianco dei turchi, col sostegno politico dell’Austria. La guerra si trasformò così in un confronto tra grandi potenze, che, come tutti i conflitti di questo genere, pose fine al preesistente ordine internazionale, il cosiddetto Concerto. A sua volta quest’ultimo era il risultato della precedente, lunga e violenta fase conflittuale tra potenze: le guerre della Rivoluzione e napoleoniche.
Oggi come ieri le potenze maggiori sono schierate con l’uno o l’altro dei belligeranti: da un lato Stati Uniti e alleati della Nato, primo tra tutti il Regno Unito; dall’altro, Iran, Corea del Nord e Cina. In una posizione, quest’ultima, che rinvia a quella austriaca del 1854. L’evidente differenza del caso odierno rispetto a quelli passati è data dalla mancata partecipazione diretta, con proprie truppe sul campo, delle potenze al conflitto. Una differenza che trova la propria ovvia e principale ragion d’essere nel rischio di escalation verso una conflagrazione globale e nucleare, non a caso costantemente evocata dalla leadership russa. A cui si aggiunge tuttavia ad Occidente l’impreparazione, psicologica prima ancora che materiale, di fronte all’ipotesi stessa del ritorno della guerra.
A differenza di quanto avvenne durante la guerra fredda la minaccia nucleare non contribuisce oggi a stabilizzare il rapporto tra le potenze, non induce alla definizione di un nuovo “ordine nucleare”, di un nuovo sistema di sicurezza globale. Quella minaccia impedisce invece di colpire in profondità le fonti del sostegno logistico dei contendenti o l’imposizione di una “no-fly zone” sui cieli ucraini.
Le guerre tra grandi potenze presentano una caratteristica comune, sovente ignorata da una letteratura militare che ha fatto propria una narrazione suggestiva, in cui l’esito del conflitto dipende dall’offensiva, se non dalla battaglia, decisiva e risolutiva. In realtà, questo genere di guerre – vedi gli esempi citati – sono o comunque si trasformano in guerre di attrito. Le potenze che alla lunga possano impegnare nello sforzo bellico maggiori risorse finanziarie, economiche e demografiche finiscono con l’uscirne vincitrici. È la ragione per cui chi scrive ha creduto fin dall’inizio della guerra in Ucraina che il conflitto sarebbe stato lungo e che l’attesa dell’offensiva risolutiva era in buona misura illusoria. Certo, oltre all’esito determinato dagli effetti di un attrito prolungato (consumo di mezzi e uomini), la potenza impegnata in una guerra del genere considerato può collassare per ragioni interne. È stato il caso della Russia zarista e dell’impero Austro-ungarico nella Prima Guerra mondiale. Ma il collasso della prima fu comunque innescato dalle enormi perdite subite nei primi tre anni del conflitto, mentre quello della seconda venne prodotto dall’esplosione di spinte nazionaliste centrifughe.
L’anno della Rivoluzione bolscevica fu anche quello di Caporetto e delle diserzioni diffuse tra le truppe francesi. È perciò possibile e con qualche buona ragione ipotizzare che esista un certo livello di costi e soprattutto perdite umane, non predeterminabile, superato il quale sostenere lo sforzo bellico diventi estremamente difficile per qualsiasi belligerante. Che un simile livello sia prossimo ad essere raggiunto in Russia, come in Ucraina, è però da escludere. La capacità di riconversione ad economia di guerra dell’apparato produttivo della Federazione, il limitato effetto per “aggiramento” delle sanzioni e i nuovi acquirenti – primo tra altri l’India – dei combustibili fossili russi consentono alla Russia di sostenere lo sforzo bellico. Stesso dicasi del reclutamento in regioni periferiche e del “mercenariato” di varia natura, che attenuano radicalmente l’effetto delle perdite nelle grandi città, nella componente più occidentalizzata della società russa. Né il consolidamento della leadership putiniana, frutto dell’eliminazione o fuoriuscita degli oppositori, dei recenti successi tattici al fronte, dell’esito delle elezioni presidenziali e dello stesso attentato di Mosca, consente di confidare in un putsch interno.
La guerra andrà avanti. L’esito sarà segnato dal consumo di risorse, materiali e umane. Le conseguenze, qualunque sia la conclusione, incideranno pesantemente sull’ordine (o disordine) internazionale futuro. La tenuta dell’Ucraina è cruciale e possibile, ma ovviamente dipende dal sostegno esterno. Tutti i Paesi dell’Unione europea dovrebbero prenderne atto e, quantomeno a fine prudenziale, considerare realisticamente il “worst case scenario”. Ciò non significa, come spesso viene ripetuto, creare i presupposti della “guerra inevitabile”, bensì ricostituire una credibile capacità deterrente convenzionale che, con una garanzia ultima nucleare, renda la guerra evitabile.