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A unire Meloni e Biden sono le analisi geopolitiche. L’opinione di D’Anna

A Washington i due leader hanno evidenziato gli ottimi rapporti tra i Paesi e la sintonia sui dossier più caldi, dalle guerre in Medio Oriente e Ucraina alla minaccia cinese, dall’Africa all’IA. L’analisi di Gianfranco D’Anna

Lo sguardo sul mondo dalla Casa Bianca di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, e l’identità di vedute con Joe Biden, presidente americano, conferisce all’Italia una crescente leadership in ambito euromediterraneo. Una preminenza nella prima fila degli alleati europei di Washington che scaturisce dall’univocità delle analisi geopolitiche e di intelligence in merito ai conflitti in Ucraina, Medio Oriente, al ruolo del leader russo Vladimir Putin, alla pervasività economica e dintorni della Cina, alla complessa situazione africana, alle minacce del terrorismo islamico e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale.

Tematiche affrontate, dopo il faccia a faccia fra Biden e Meloni, nel bilaterale tra le delegazioni dei due Paesi al quale da parte americana ha significativamente partecipato anche Antony Blinken, segretario di Stato.

Dopo l’ultimo o purtroppo solo penultimo massacro di Gaza, gli scenari internazionali sono prevalentemente focalizzati sulla Russia e l’Ucraina. La coraggiosamente straordinaria e commovente partecipazione popolare ai funerali di Alexey Navalny ha testimoniato al mondo come nonostante la spietata repressione di Putin persista in Russia una coscienza autenticamente democratica. “Lui è morto. Ma la speranza no”, ha scritto la famosa inviata di guerra Christiane Amanpour. Un’insopprimibile speranza di libertà che ha spinto migliaia di persone a gridare “Putin assassino”, “No alla guerra” e “La Russia sarà libera” che evidenzia come l’agghiacciante assassinio di Navalny sia destinato ad avere ripercussioni esponenziali nel sommesso ma progressivo processo di rigetto del regime di Putin da parte dei russi.

È l’analisi che sull’Economist prospetta Stephen Covington, esperto di strategie geopolitiche della Nato. Secondo lui l’invasione dell’Ucraina è stata scatenata perché la vera minaccia esistenziale dell’Occidente nei confronti di Mosca è rappresentata dalla democrazia e dalla libertà dei suoi Paesi, principi che non consentirebbero l’esistenza del regime di Putin, che infatti può esistere solo in uno stato di guerra. “La Russia può affrontare la sua non competitività solo cambiando il mondo attorno alla Russia”, sostiene Covington. Secondo Alexandra Prokopenko del Carnegie Russia Eurasia Centre, un think tank con sede a Berlino, “il divario tra il militarismo del Cremlino e il desiderio della gente di tornare alla normalità non potrà che aumentare. Putin vuole sconfiggere il senso stesso della volontà individuale incarnato da Navalny. E non si fermerà”.

Uno stato d’animo, scrive l’Economist, che si manifesta in maniera crescente fra le trincee del fronte ucraino. Come ha rivelato apertamente Alexander Shpilevoi, un soldato di prima linea di 27 anni, in un video pubblicato sul canale Telegram chiamato “Road Home”, gestito dai familiari dei mobilitati: “Tutti vogliono tornare a casa. Davvero tanto”. Un appello che ha provocato il suo arresto e, in attesa della corte marziale, la deportazione nelle tetre prigioni della città di Luhansk occupata dai russi.

Chi salverà il soldato Shpilevoi prima che scompaia nel nulla? La sua vita è appesa all’esile filo dell’intervento del movimento denominato Put Domoi, la strada di casa, formato da mogli, sorelle e madri dei soldati arruolati a forza e spediti a combattere, che sta utilizzando l’unica “arma” di cui dispone: diffondere il video sempre più virale del militare.

La dicotomia fra le truppe dell’armata russa mandate al massacro, ondata dopo ondata, pur di avanzare di qualche chilometro e il riferimento del presidente francese Emmanuel Macron ai soldati occidentali da inviare in Ucraina, non ha colto di sorpresa gli analisti di strategie militari. Anche se non ufficialmente, in ambito Nato e fra i vertici militari di Regno Unito e Paesi europei, da mesi si sta valutando l’eventuale formazione di reparti specializzati a metà fra i contractor e i volontari, da integrare nelle forze di Kyiv in modo che non vengano classificati come foreign fighter. Una sorta di risposta occidentale, molto più efficiente e motivata, alla compagnia Wagner spregiudicatamente utilizzata da Putin nell’Est europeo e in Africa.

Una pianificazione delicata e rischiosa, che potrebbe tuttavia rappresentare l’altra faccia del concreto sostegno militare internazionale alla resistenza del popolo ucraino per fronteggiare l’invasione russa.

Una guerra che per molti versi è strettamente connessa all’esplosione del conflitto mediorientale e alla minaccia dei fondamentalisti yemeniti Houthi alla navigazione nel Mar Rosso.

Una spirale di scontro globale che dietro la facciata di Hamas e degli Houthi, evidenzia la regia iraniana e la strategia russa per provocare un corto circuito nel sostegno occidentale all’Ucraina.

A Gaza, l’orrore e la disperazione delle immagini del martirio del popolo palestinese senza terra, usato come carne da macello dai terroristi islamici, non scalfisce la determinazione di Israele di avanzare fino a conquistare ultima roccaforte di Hamas a Rafah, il penultimo covo prima di quello di Teheran. Secondo questa ipotesi la tregua potrà essere raggiunta solo dopo che le forze di Gerusalemme raggiungeranno il confine con l’Egitto e faranno irruzione nei bunker sotterranei di Hamas a Rafah.

Una corsa alla vendetta totale che rischia tuttavia di trasformarsi in un boomerang internazionale.


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