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La storia di una famiglia spezzata nell’opera seconda di Moro. Il racconto di Ciccotti

Una coppia separata deve crescere una figlia di undici anni tra tensioni e disaccordi. Un padre, borgataro, proletario e disperato, una madre attenta. E la bambina che, soffrendo, ama entrambi. “Martedì e Venerdì”, felice opera seconda del cantautore Fabrizio Moro, in coregia con Alessio De Leonardis, parla delicatamente al cuore del pubblico, con un finale che omaggia François Truffaut

Ad ambientare una storia negli interni popolari (officina, piccoli appartamenti) della periferia romana, con un taglio da neo-oggettivo, tra Pier Paolo Pasolini (Mamma Roma) ed Ettore Scola (Brutti sporchi e cattivi) e la scelta netta del trilinguismo (romanesco + slang/italiano regionale/italiano standard), si corre il rischio di non superare Civitavecchia nella distribuzione. Eppure Martedì e Venerdì (2024), di Fabrizio Moro e Alessio De Leonardis se non è un capolavoro è un film onesto e coraggioso, e andrà lontano. Onesto perché avrebbe potuto smarginare nel drammone da violenza splash e invece schiva tale sirena da pseudo film-cult. Coraggioso poiché parla di situazioni dure, ricordandosi che nella storia v’è una bambina e molti preadolescenti e adolescenti andranno in sala.

La piccola, Claudia (Aurora Menenti, diretta con grazia), vive con la mamma, e due volte a settimana (il martedì e il venerdì) va dal padre, come tutti i figli di coppie separate: ama l’una e l’altro. La madre, Simona, è più organizzata rispetto al suo ex marito. Questi, Marino (Edoardo Pesce, misurato e convincente), è un ottimo meccanico, ma sognatore, distratto, buca gli appuntamenti con la piccola, è particolarmente nervoso: ha perso il lavoro e non riesce a “passare” il mensile a Simona. Suo malvolentieri si improvviserà rapinatore per necessità.

Il soggetto sembra la trama d’un romanzo d’appendice. Eppure chi, da vicino, ha conosciuto tristi storie di periferia (e Fabrizio Moro non le deve apprendere da nessun saggio), troverà Martedì e Venerdì genuino e fresco, come qualcosa che “conosce”: un dardo affilato che ti arriva al cuore.

L’apporto di Alessio De Leonardis (già assistente di Krzysztof Zanussi, Daniele Vicari e Paolo e Vittorio Taviani) conferisce al racconto quel retrogusto documentario, sottotraccia, chiamato ad avvolgere una vicenda di tutti i giorni, costruita su tagli brevi, come i versicoli di certa poesia novecentesca, preservandola dal facile melodramma. I personaggi, Simona (Rosa Diletta Rossi, una giovane mamma credibile: stressata, arrabbiata, dignitosa, pronta a perdonare), Marino e Claudia, sono affidati ad una direzione che esalta le tensioni ma anche i brevi momenti di vuoto, di silenzio; così come la fotografia (Simone Zampagni), non leccata, mantiene un voluto sbilanciamento del fotografico (chiaro in esterni/scuro negli interni): asimmetria riflettente un mondo interiore (di madre figlia e padre) in subbuglio.

Marino finisce dentro. Quando esce dal carcere, dopo diversi anni, lo spettatore non vede nessuno ad attenderlo. Si incammina insicuro sulla via di una vita da ricreare, appesantito dal dolore, con la sua piccola borsa. Come ogni ex detenuto inizia il vero dramma della solitudine.  Chissà se il mondo lo accoglierà. Quella figlia tanto amata, si chiede lo spettatore, come sarà? Dove sarà? Ecco, la voce di Claudia bambina “Papà!”. Si gira verso la camera e lo stop-frame lo blocca: come l’Antoine dopo aver visto il mare (I quattrocento colpi di François Truffaut). Lo spettatore immagina che non può essere sua figlia, sono passati troppi anni…

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