Sappiamo che i tanti posti di lavoro creati potranno essere occupati solo con una riqualificazione che consentirà di acquisire nuove competenze e che i lavoratori nel futuro dovranno necessariamente saper interagire con le nuove tecnologie. Per questo la direzione verso la quale dovranno essere indirizzate le politiche del lavoro, quella della formazione permanente, è assolutamente chiara se non vogliamo che il mismatch arrivi a livelli esponenziali. L’analisi di Leonardo Becchetti, professore di Economia politica presso l’Università di Roma Tor Vergata
Ogni grande epoca di rivoluzione tecnologica (da quella della spoletta meccanica, a quella della diffusione dell’illuminazione) è stata accompagnata da grandi paure della fine del lavoro. Che si sono sempre rivelate infondate. I fatti stilizzati delle grandi rivoluzioni tecnologiche si assomigliano in modo impressionante: aumento della produttività, aumento delle diseguaglianze con la creazione di nuova ricchezza che si concentra all’inizio nelle mani di chi possiede o controlla le nuove tecnologie, politiche redistributive che diffondono i benefici, aumento dei consumi di massa che si riversano su nuove tipologie di beni e servizi, aumento del reddito pro capite e dei posti di lavoro (peraltro necessario per accompagnare in epoche passate la crescita della popolazione). Perché allora tutte queste paure? Fondamentalmente per una distorsione di percezione.
I settori in crisi con competenze desuete e posti di lavoro che calano sono immediatamente visibili (anche oggi in televisione è normale che si parli degli alberi che cadono, ovvero le crisi industriali, e non della foresta che cresce). Nulla fa pensare che dal punto di vista economico questa volta sarà differente. La più grande società al mondo di consulenza in questo ambito, la Gartner, si spinge a prevedere che l’intelligenza artificiale aumenterà di circa mezzo miliardo il numero netto di posti di lavoro nel mondo. Sembra un numero enorme ma è quello che osserviamo ogni anno dai dati dell’Organizzazione mondiale del lavoro che segnala un aumento di circa 40 milioni di posti di lavoro all’anno nel mondo. Quella che chiamiamo intelligenza artificiale non assomiglia affatto all’intelligenza umana ma è soprattutto un balzo significativo delle capacità computative e di elaborazione statistica che fornirà alle macchine sistemi di allenamento consentendo loro un apprendimento molto più veloce. Ma sempre di “pappagallo stocastico” si tratta.
Un’altra costante dell’innovazione tecnologica è quella di aumentare la produttività del lavoro. Di fronte a questo fenomeno si può decidere di aumentare o ridurre le ore di lavoro, ma di solito il fenomeno aggregato a cui abbiamo storicamente assistito è quello della progressiva riduzione delle ore di lavoro pro capite. Non è un caso che il settore dominante dei nostri tempi sia quello dei beni e servizi che ci consentono di rilassarci nel tempo libero, sempre più abbondante non solo per chi lavora (e si affaccia all’orizzonte la settimana di lavoro di quattro giorni già sperimentata con successo in alcune grandi imprese nel mondo) ma anche per la massa sempre maggiore di pensionati per i quali tutta la giornata diventa tempo libero. È per questo motivo che oggi un influencer, un divo dello sport o dello spettacolo guadagna molto di più di un valido professore di scuola: non perché il suo lavoro sia socialmente più meritorio ma solo perché il valore del lavoro sul mercato è determinato dalla domanda. E la domanda di beni e servizi nel tempo libero continua ad aumentare in modo impetuoso.
Sappiamo piuttosto che i tanti posti di lavoro creati potranno essere occupati solo con una riqualificazione che consentirà di acquisire nuove competenze e che i lavoratori nel futuro dovranno necessariamente saper interagire con le nuove tecnologie. Per questo la direzione verso la quale dovranno essere indirizzate le politiche del lavoro, quella della formazione permanente, è assolutamente chiara se non vogliamo che il mismatch (la contemporanea presenza di posti di lavoro vacanti e di disoccupati) arrivi a livelli esponenziali. Di cosa dobbiamo veramente preoccuparci allora? Di un aspetto molto più sottile: la manipolazione delle preferenze. La comunicazione vive di ascolti da cui dipendono gli introiti pubblicitari.
Se in un talk show il giochino di far litigare parti avverse avviene alla luce del sole, sui social tutto diventa molto più subdolo e non ci accorgiamo di essere manipolati e strumentalizzati per “recitare” una parte con un burattinaio che ci costringe a schierarci, a militare e a litigare con chi si schiera dalla parte opposta. Tanto che Pirandello ai tempi dei social trasformerebbe il suo famoso detto in “nella vita (virtuale) incontrerai molte bandierine e pochi volti”. Studi scientifici pubblicati su riviste di prestigio dimostrano che l’assalto dei seguaci di Trump a Washington e di quelli di Bolsonaro a Brasilia non sarebbero accaduti senza la polarizzazione delle preferenze aizzata dai social media. È di questo e di altri fenomeni manipolatori che dovremmo preoccuparci e non certo della fine del lavoro.
Analisi pubblicata sull’ultimo numero della rivista Formiche