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L’unica e vera discriminazione del nostro tempo: la povertà. Il commento di Monti

Emanciparsi non significa guadagnare di più. Emanciparsi significa rendersi liberi, sottrarre la propria vita ad un potere esterno. E in questo, la cultura, può molto di più di quanto possa il denaro. Il commento di Stefano Monti

In un mondo sempre più caratterizzato dal politically correct, in cui si preferisce utilizzare asterischi o altri simboli per risultare più inclusivi, l’unica vera e reale discriminazione in essere è quella della povertà. Si tratta, a ben vedere, di un’evidenza coerente con il nostro sistema sociale: con la supremazia del potere economico sul potere politico, l’atto discriminante non avviene più utilizzando gli strumenti che da sempre alcuni gruppi utilizzano per avere il predominio sugli altri, ma attraverso una serie di elementi che pongono il povero in una condizione discriminata.

Non si tratta, sia chiaro, dell’ultimo modello di smartphone, o di consumi di lusso. Si tratta di elementi che sono alla base della vita: sanità, formazione, opportunità. Se il transumanesimo, vale a dire la posizione di coloro che ritengono che l’essere umano debba essere potenziato attraverso la tecnologia, dovesse davvero affermarsi nei prossimi decenni, allora il problema della povertà diverrebbe ancora più evidente di quanto lo sia già. Oltre a dover ridurre le discriminazioni, ove possibile, la nostra società dovrebbe anche includere, nel proprio bagaglio culturale, una serie di strumenti e di conoscenze che relativizzino il concetto di ricchezza. In un mondo ideale, elementi come formazione e cultura rappresentano, al pari di quanto previsto dalla nostra Costituzione, degli strumenti operativi di emancipazione e di uguaglianza sociale.

Nella realtà, è più che evidente che il nostro sistema culturale, che a fatica riesce ad emancipare sé stesso, svolge soltanto in parte tale ruolo. Ci sono, come sempre, casi esemplari. Uomini e donne che, partendo da condizione di svantaggio sono riusciti a crescere economicamente e socialmente e raggiungere livelli di ricchezza importanti. Ma è sempre tremendamente difficile comprendere se, quei casi esemplari, debbano il proprio successo alle condizioni, o se invece rappresentino un guazzabuglio statistico e di circostanze che sarebbe comunque emerso, qualunque cosa fosse stata scritta nella nostra Costituzione.

Perché se è improbabile che tutti coloro che nascono in condizioni economiche svantaggiate riescano poi a diventare ricchi, è del tutto impossibile che nessuno di essi lo faccia. Mettendo da parte l’aspetto speculativo, l’evidenza ci suggerisce che non sempre la formazione e la cultura del nostro Paese riescono realmente ad ottemperare a quegli obblighi di mandato costituzionale che dovrebbero consentire a tutti i cittadini di avere le stesse opportunità, e la stessa capacità di decidere il proprio futuro in modo autonomo. Partendo da questa sconfitta costituzionale, è necessario confermare che non può da sola la cultura essere ritenuta responsabile delle differenze sociali e di reddito che, in fondo, sono sempre esistite e probabilmente sempre continueranno ad esistere.

C’è però una differenza tra il non attribuire una responsabilità univoca, e la completa assoluzione. La cultura è costituzionalmente obbligata a concorrere al miglioramento della società. E questo è un tema che soltanto raramente viene davvero affrontato, e che, per quanto sia poco attrattivo, diviene tanto più rilevante quanto più rilevanti sono le differenze di ricchezza che si misurano nel Paese. Il report DisuguItalia edito da Oxfam, evidenzia come negli ultimi 20 anni, la disuguaglianza in termini di concentrazione di ricchezza presenti trend molto stabili, sia sul lato più ricco della popolazione (che tende a crescere nonostante naturali oscillazioni), sia sul lato più povero della popolazione (che tende a decrescere nonostante naturali oscillazioni).

 

Può la cultura arginare un fenomeno di questo tipo? Probabilmente può farlo soltanto in minima parte. Ma ciò non significa che non ci possano essere strade che non debba perseguire.

Può, ad esempio, fornire modelli di vita che non esaltino la sfrontatezza dell’1% più ricco, senza tuttavia ricorrere al retorico biasimo fazioso che taccia di vacuità coloro che hanno la possibilità di divertirsi senza preoccuparsi del proprio futuro.

Può farlo meglio, forse, promuovendo un modello di vita nel quale persone che hanno difficoltà economiche possano realmente identificarsi. Può affermarsi, la cultura, come un elemento di crescita personale, individuale e sociale che permetta a tutti di poter riflettere sulla propria esistenza, estendendo la prospettiva di riflessione a qualcosa che superi le sole componenti economiche.

Perché se da un lato migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini dovrebbe essere in fondo la ragione dell’esistenza dello Stato (condizione che talvolta sia chi detiene il potere politico, sia chi detiene il potere amministrativo dimentica), dall’altro, la cultura dovrebbe in qualche modo svolgere il ruolo che da sempre conduce: riflettere sulle condizioni di vita del proprio tempo ed identificare le strategie più adatte per poter scegliere ciò che si vuole, scegliere come ottenerlo, e capire cosa sacrificare nel perseguimento di tale condizione.

La capacità di poter vivere la vita degli altri che infonde la lettura, l’indagine sul bello, la possibilità di discernere tra ciò che i cittadini riconoscono come un proprio valore etico e non come un valore che viene passivamente assorbito dalle narrazioni del proprio contesto.

Emanciparsi non significa guadagnare di più. Emanciparsi significa rendersi liberi, sottrarre la propria vita ad un potere esterno. E in questo, la cultura, può molto di più di quanto possa il denaro.


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