Italia e Regno Unito possono sviluppare progetti comuni per l’Africa? Oltre alle posizioni convergenti dei due governi, le competenze specifiche che il Regno Unito può apportare al Piano Mattei suggeriscono di sì
“Molti dicono che l’Africa è disfunzionale, ma per me è necessario evitare il fatalismo: se accettiamo che l’Africa sia disfunzionale, tutto diventa possibile, anche movimenti di centinaia di milioni di persone verso l’Europa, investimenti in tecnologie, sforzi per incoraggiare le riforme e il buon governo, una base fiscale per i governi africani, uno sfruttamento di risorse che non deprivi il continente delle sue risorse – queste sono possibilità concrete e se le vorremo considerare, l’Africa diventerà una potenza economica ed il problema di flussi di massa diminuirà, forse anche fino a zero”.
Alcuni giorni fa James Cleverly, ministro dell’Interno britannico, si è espresso così sui rapporti con i Paesi africani. Ma sarebbe altrettanto facile immaginare un membro del governo italiano pronunciare parole simili sulle ambizioni del Piano Mattei. Italia e Regno Unito possono sviluppare progetti comuni per l’Africa? Oltre alle posizioni convergenti dei due governi, le competenze specifiche che il Regno Unito può apportare al Piano Mattei suggeriscono di sì.
Il seme di una collaborazione
I punti di contatto tra le sensibilità italiane e britanniche sono numerosi e vanno oltre le mere dichiarazioni. Frequenti contatti tra Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, e Rishi Sunak, primo ministro britannico, hanno già prodotto una prima collaborazione per realizzare rimpatri volontari dalla Tunisia. Con 4,6 milioni di euro in finanziamenti di Roma e Londra, si tratta di un progetto di portata modesta, ma realizzato in tempi brevi (mentre il dialogo tra Bruxelles e Tunisi ha incontrato difficoltà) e presentato come un preludio ad altre iniziative congiunte “sulla sicurezza e lo sviluppo economico del Nord Africa”.
Per fare la differenza, il Piano Mattei dovrà dar seguito a progetti su una scala ben più ampia di quanto finora tentato da un singolo Paese. Un livello di ambizione così alto richiederà tutte le collaborazioni possibili e un senso di missione per unire le forze disponibili verso un obiettivo comune.
Il Regno Unito può offrire un contributo su entrambi i fronti: non solo un’esperienza decennale nella gestione di grandi collaborazioni internazionali ma – altrettanto importante – esempi su come motivare il gioco di squadra nella pubblica amministrazione.
Grandi progetti economici internazionali
Durante il G7 del 2021, la presidenza britannica gettò le basi per la creazione di investimenti coordinati del G7 in Paesi i via di sviluppo, enfatizzando l’importanza di “principi comuni per investimenti per infrastrutture sostenibili, affidabili e di qualità e in finanza per lo sviluppo”. Questa iniziativa oggi giunge a fruizione e investimenti congiunti dei Paesi G7 nella Repubblica Democratica del Congo potrebbero diventare il primo banco di prova del Piano Mattei.
Anche in relazione ai fondi per i cambiamenti climatici (che costituiranno la metà della dotazione finanziaria del Piano Mattei), il Regno Unito è all’avanguardia. Londra ha utilizzato i propri contributi finanziari a impegni collettivi per la transizione energetica in Sud Africa (1,8 miliardi di sterline nel corso di 5 anni), in Vietnam (1 miliardo di sterline) e in Indonesia (1 miliardo di sterline) come un biglietto da visita, per spianare la strada a accordi bilaterali su temi di specifico interesse britannico: minerali rari con il Sud Africa; sicurezza cyber e marittima con il Vietnam; sicurezza regionale con l’Indonesia.
Le lezioni che il Regno Unito ha appreso da queste esperienze saranno preziose per l’Italia per assicurare il “coinvolgimento attivo” delle banche multilaterali di sviluppo, delle istituzioni finanziarie internazionali e del settore privato nel Piano Mattei, anche sfruttando il nuovo mandato della Banca europea per la ricostruzione e gli investimenti (che ha sede a Londra) di espandere per gradi le proprie attività nell’Africa sub-sahariana.
Londra nel 2024 ospiterà una seconda conferenza per gli investimenti britannici nel continente africano: è possibile immaginare una delegazione italiana alla manifestazione, come gesto concreto di collaborazione tra i due Paesi?
Piano Mattei: un nuovo modo di lavorare?
Ora che il Piano Mattei si avvia ad entrare nella fase attuativa (con l’annuncio della dotazione finanziaria di 5,5 miliardi di sterline e con la costituzione del struttura di missione incaricata della sua attuazione nei prossimi quattro anni), il suo successo richiederà la collaborazione fattiva dei numerosi enti coinvolti. Un compito non facile, ma possibile: è ancora fresca la memoria di come l’emergenza covid sia stata uno stimolo per innovare radicalmente il modo di lavorare della pubblica amministrazione italiana.
Per il Regno Unito, il caso Skripal del 2018 è stata la più recente discontinuità nel settore pubblico britannico: l’impiego da parte russa di una potente arma chimica sulle strade di una città britannica portò a realizzare la necessità di “forti collaborazioni con i ministeri che non hanno competenze tradizionali per la sicurezza, con il settore privato e con il terzo settore” per “ostacolare quanti vogliono recare danno al Regno Unito” e “identificare i mezzi più efficaci per dar seguito a obiettivi di governo nel lungo periodo”. Questo nuovo modo collaborativo di lavorare, denominato fusion doctrine, continua ad applicarsi non solo alla difesa da minacce esterne, ma anche alla mobilitazione di vari enti della pubblica amministrazione per promuovere gli interessi britannici all’estero.
È un approccio che inizia a portare frutti: da progetti di ricerca congiunti sulla sicurezza delle telecomunicazioni con il Giappone, alla ricerca di collaborazioni più strette in ambito di tecnologie per la difesa con l’India, a una nuova generazione di funzionari per la cybersicurezza in Africa formati dal Regno Unito. Ad accomunare queste iniziative apparentemente disparate è la determinazione a mobilizzare l’intera gamma delle competenze specialistiche del Regno Unito (anche quando risiedono in enti tecnici non tradizionalmente impegnati all’estero) come un grimaldello, per creare nuovi canali di dialogo “dal basso”: forgiando collaborazioni inizialmente su temi specifici e questioni tecniche, anziché partire da dialoghi di alta politica.
Un’abitudine alla collaborazione interministeriale ha certamente facilitato il successo di questi esperimenti di politica estera: per esempio, tutti i ministeri britannici sono abitualmente coinvolti in consultazioni scritte prima dell’annuncio di nuove iniziative da parte di un’altra amministrazione (ministerial write-around). A tal riguardo, è un buon segno che il Piano Mattei preveda il coinvolgimento attivo di tutti i ministri, che pure sono stati coinvolti come firmatari del decreto istitutivo della cabina di regia sul Piano (una “circostanza assai poco frequente”, secondo un commento sornione nelle note tecniche che accompagnano il provvedimento).
Ma per superare rigidità di competenze tra vari enti statali e instaurare collaborazioni fattive, un mandato politico è necessario ma spesso non sufficiente. Per questo, nel Regno Unito esiste dal 2010 un fondo di spesa dedicato a dar seguito alle delibere collettive di governo che richiedono la cooperazione di più di un ministero su finalità strategiche.
Con stanziamenti di poco inferiori a 1 miliardo di sterline l’anno (100 milioni di sterline solo per l’Africa sub-sahariana e 500 milioni complessivamente per Africa e Medio Oriente), il Conflict, Stability and Security Fund finanzia progetti-pilota “interministeriali e a rapido dispiegamento, per accelerare lo sviluppo di nuovi approcci e incentivare la sperimentazione e l’assunzione di rischi” da parte della pubblica amministrazione, combinando spesa per la cooperazione allo sviluppo con finalità di sicurezza: da missioni di stabilizzazione alla formazione di forze di polizia in Nigeria, dalla riduzione di instabilità che mettono a repentaglio la crescita economica di Paesi in via di sviluppo al contrasto dello sfruttamento dell’immigrazione irregolare.
A quando un incontro del politico responsabile per il fondo CSSF, la baronessa Lucy Neville-Rolfe, con l’omologo sottosegretario Alfredo Mantovano?
Possibili ostacoli
Tradizionalmente considerato una “superpotenza della cooperazione allo sviluppo”, il Regno Unito in anni recenti ha fortemente ridotto i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo, con tagli definiti “pari a un’esplosione nucleare che lasci pochi sopravvissuti tra le macerie” dall’attuale viceministro responsabile per il settore. A comporre il problema, quasi un terzo delle risorse rimanenti (3,7 su 12 miliardi di sterline) è stato ridestinato a finanziare i costi del primo anno di accoglienza per richiedenti asilo nel Regno Unito, anziché a progetti all’estero.
Si tratta di difficoltà superabili. Anziché generare lamentele su una coperta troppo corta, le esigenze di bilancio hanno incentivato nuove collaborazioni: per esempio, 50 milioni di sterline con il Qatar per progetti umanitari congiunti e 100 milioni di sterline con l’Arabia Saudita per finanziare infrastrutture nell’Africa orientale.
Anche in tempo di ristrettezze, Londra ha scelto di operare in modo strategico: la quota di investimenti in infrastrutture in Paesi in via di sviluppo è stata l’unica area della cooperazione allo sviluppo a essere potenziata nello scorso biennio, anche a costo di forti riduzioni di altri ambiti di attività. Inoltre, l’ammontare dedicato dal Regno Unito alla cooperazione allo sviluppo rimane considerevole in valori assoluti: 15,8 miliardi di sterline nel 2022, con ampie opportunità per coordinarsi con alleati come l’Italia (che, nel 2022, ha speso 6,5 miliardi di sterline).
Un asse anglo-italiano duraturo?
Il calore delle interazioni tra Meloni e Sunak è finora stato l’elemento più visibile delle collaborazioni internazionali tra Roma e Londra. Ma il Regno Unito si appresta ad entrare in una fase di campagna elettorale, con elezioni politiche che si dovranno tenere al più tardi entro il gennaio 2025. Le incipienti collaborazioni tra i due Paesi hanno fondamenta abbastanza solide per sopravvivere alla “distrazione” di un anno di campagna elettorale e a un potenziale cambio di governo a Londra?
Oltre a cordiali rapporti preesistenti, il prossimo residente di Downing Street erediterà l’accordo di cooperazione bilaterale tra Italia e Regno Unito firmato l’anno scorso e, con esso, un fitto programma di consultazioni: a livello politico, tra i rispettivi ministri degli Esteri e della Difesa, ma anche a livello apicale tra i segretari generali di Foreign office e Farnesina e a livelli di funzionari su molteplici temi. Tra gli impegni specifici, quello di formulare un “partenariato strategico sulla migrazione” tra i due Paesi sulla base di “una strategia onnicomprensiva su più fronti”, “ivi incluso incrementando la cooperazione e il coordinamento in materia di sicurezza e sviluppo”. Quale migliore occasione del primo anniversario della firma dell’accordo Meloni-Sunak, il prossimo 27 aprile, per indicare come dar seguito a questo impegno?
Anche in caso di un cambio di governo dopo le elezioni nel Regno Unito, ci sono ragioni per ritenere che le collaborazioni con l’Italia non si estingueranno. Il segretario laburista Keir Starmer ha illustrato l’ambizione di dar corso a un approccio post-ideologico, basato sulla sperimentazione di nuove soluzioni e su investimenti di lungo periodo per risolvere problemi apparentemente intrattabili.
Il metodo di lavoro che i laburisti hanno indicato di voler adottare se andranno al governo (mission boards) prevede un ampio ricorso a gruppi di lavoro interministeriali e il coinvolgimento di esperti del mondo privato. Molto simile, dunque, alla cabina di regia del Piano Mattei e ad altri meccanismi di cooperazione interministeriale recentemente sperimentati da Palazzo Chigi (in particolare, il comitato interministeriale per la transizione digitale che fa capo al ministro Alessio Butti che, nel giro di pochi mesi, ha saputo produrre una strategia per la banda ultra larga italiana o creare un fondo di investimento per l’intelligenza artificiale).
In relazione al contrasto dell’immigrazione irregolare, Starmer ha argomentato che “confini sicuri sono imprescindibili” e che dobbiamo affrontare “la minaccia” dei trafficanti di esseri umani “con la stessa importanza dei cambiamenti climatici, del terrorismo e delle interferenze di stati ostili in relazione alla sicurezza nazionale”. Il segretario laburista ha anche fatto trapelare il proprio sostegno a forme di esternalizzazione dell’esame di richieste d’asilo da parte di funzionari britannici presso centri all’estero: lo stesso modello adottato dall’accordo Albania-Italia (considerato anche da Tony Blair, ancor prima di Starmer).
Difficile immaginare, dunque, che un possibile governo laburista così centrista trovi da obiettare ai termini già sottoscritti con l’Italia: “Collaborare a livello internazionale a sostegno di approcci innovativi [e] rendere prioritaria la dimensione esterna delle politiche migratorie come soluzione strutturale per prevenire la migrazione irregolare e stabilizzare i flussi”.
Le opportunità per costruire un asse Londra-Roma a sostegno di un nuovo rapporto con l’Africa non mancano: oltre all’anniversario della firma dell’accordo di cooperazione tra Italia e Regno Unito ad aprile, l’Italia ospiterà il vertice G7 a giugno e il Regno Unito una riunione della Comunità politica europea quest’estate.
Ma, come recentemente ricordato dal ministro Cleverly, servono grinta, ambizione e uno sforzo collettivo di immaginazione per trasformare possibilità astratte in soluzioni concrete.
Cinque suggerimenti che emergono guardando al Piano Mattei da Londra:
- Il partenariato strategico sulla migrazione: quali nuovi annunci anglo-italiani?
- L’esperienza (da condividere) della diplomazia economica britannica.
- “Mission-driven government”: come unire la pubblica amministrazione su una finalità comune?
- UK Africa Investment Summit: una delegazione pubblico-privata italiana come ospite d’onore?
- Il precedente del CSSF britannico su sviluppo e sicurezza in Africa.
*L’autore lavora come analista politico a Londra e scrive a titolo personale