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Perché la resilienza dell’economia nel 2023 è di buon auspicio. L’analisi di Zecchini

L’economia italiana è riuscita a fare meglio di quella tedesca, con cui è particolarmente integrata, ma non di quella spagnola che avanza a ritmi tra i più rapidi nell’Ue. L’analisi di Salvatore Zecchini

I dati appena pubblicati dall’Istat sull’andamento dell’economia nello scorso anno offrono un quadro meno grigio di quanto ci si aspettava in un contesto di restrizione monetaria da parte della Bce e di rallentamento dell’economia mondiale e degli scambi commerciali. L’economia è riuscita a fare meglio di quella tedesca, con cui è particolarmente integrata, ma non di quella spagnola che avanza a ritmi tra i più rapidi nell’Ue. Anche in termini di inflazione al consumo ha ottenuto una discesa sotto la media europea, che è un buon segno per l’orientamento della politica monetaria. Nell’insieme ha evidenziato una capacità di resilienza alle avversità esterne e alle strettoie delle politiche macroeconomiche interne, volte a contenere gli squilibri consistenti nella finanza pubblica.

Dopo oscillazioni da trimestre a trimestre, la crescita reale si è attestata su livelli molto bassi, 0,9% annuo, in forte contrasto con il 6,2% di quella nominale, che per via del rialzo dei prezzi porta il Pil a superare per la prima volta il traguardo dei 2 trilioni (2085,4 miliardi). Una resilienza al di sopra delle previsioni generali, che lascia ipotizzare un risultato migliore quest’anno per effetto di fattori che hanno avuto finora poco gioco, come l’entrata nel pieno della realizzazione delle opere programmate nel Pnrr. Nel 2023 la poca espansione che si è realizzata è dovuta essenzialmente alla resistenza della domanda interna (+2%) e alla spesa pubblica in disavanzo, con un piccolo contributo delle esportazioni al netto dell’import (0,3%).

L’apporto maggiore alla domanda è venuto dai consumi delle famiglie e dagli investimenti delle imprese, entrambi fornendo alla crescita un contributo dell’1%. Le famiglie hanno continuato a espandere i consumi (1,2%) ma con una cautela dovuta all’erosione dei redditi reali prodotta dall’inflazione e alle incertezze economiche. Ne sono una manifestazione le modifiche nelle scelte di spesa: si sono indirizzate maggiormente verso i servizi piuttosto che i beni e tra i primi particolarmente quelli di trasporto, la ristorazione, turismo e cultura. In contrazione, invece, le spese tradizionali per abbigliamento, elettrodomestici e altri beni per la casa.

Aspetto positivo è anche il continuo avanzare degli investimenti delle imprese (4,7%) nonostante il rallentamento economico e le incerte prospettive. Questo risultato può attribuirsi in parte alle incentivazioni pubbliche, tra cui quelle per la transizione energetica, il rinnovo degli impianti industriali, l’innovazione e il Superbonus per le opere di risparmio energetico negli immobili. In particolare, per quest’ultima misura la scadenza prevista per la fine del 2023 può aver determinato un’accelerazione dei lavori per non perdere l’agevolazione, ovvero un effetto non ripetibile nell’anno corrente. L’importanza degli incentivi può cogliersi anche nella composizione degli investimenti: aumentano maggiormente quelli in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto, seguiti da quelli nelle costruzioni (3,1%), che tengono ancora dopo gli exploit del 2021 e 2022.

In notevole ascesa gli investimenti immateriali in proprietà intellettuale (5,9%), che al pari di quelli materiali testimoniano che è in corso un esteso processo di ammodernamento dell’apparato produttivo. Gli aiuti pubblici si rivelano essenziali per sostenere ed accelerare questo processo, che è funzionale a non perdere terreno in un periodo di grande progresso tecnologico e di cambiamenti nella competitività dei paesi. L’esigenza di continuare a stimolare il rinnovamento tecnologico del nostro sistema produttivo nei prossimi anni è divenuta ancor più urgente a seguito del lancio da parte americana di un vasto programma (l’Ira) di aiuti all’avanzamento tecnologico del suo sistema. La risposta analoga dei maggiori paesi europei spinge l’Italia a seguire la stessa strada pur non disponendo di risorse altrettanto notevoli. È quindi essenziale mantenere negli anni ed affinare questi aiuti per renderli sempre più rispondenti al grande bisogno di innovazione e produttività.

Questa esigenza vale in specie per il settore dei servizi, in cui alcuni comparti, come commercio, ristorazione, alberghi, accusano una carenza di produttività ed innovazione. Su questi fattori si fonda lo sviluppo produttivo nel medio periodo e a questo scopo è necessario investire maggiormente in innovazione e ricerca, in questo come in ogni altro settore. Nel 2023 la crescita del valore aggiunto nei servizi (1,6%) ha fatto da traino a quella complessiva della economia, con in primo piano i servizi di informazione e comunicazione (4%), a differenza della debole performance del manifatturiero (0,2%), che invece nel biennio precedente aveva avuto il ruolo preminente.

In un anno di bassa crescita, sorprendentemente l’occupazione (in termini di unità di lavoro) ha continuato a crescere in tutti i settori – dal 1,4% nel manifatturiero al 2,7% nei servizi – e anche le retribuzioni sono aumentate. È possibile razionalizzare la congiunzione nello stesso anno dei tre risultati teoricamente contraddittori come effetto di ritardati adeguamenti retributivi e contrattuali rispetto all’andamento dell’Inflazione negli anni precedenti. Non sembra, invece, che si possa fare richiamo ai guadagni di produttività avvenuti negli ultimi anni, perché i dati dell’Istat si fermano al 2022 e presentano risultati negativi.

Nel biennio 2021-2022 la produttività del lavoro è scesa in entrambi gli anni (0,5%-0,7% rispettivamente), in contrasto con quella del capitale che è avanzata in misura consistente (10,1%-2,7%). Alla base di quest’ultima performance stanno i cospicui investimenti delle imprese nel rinnovo dei loro sistemi produttivi, con l’adozione delle nuove tecnologie, specialmente quelle dell’informazione, comunicazione e digitalizzazione. Altrettanto andrebbe fatto nella formazione delle maestranze chiamate ad applicarle, superando la debolezza della formazione ed istruzione pubbliche.

In quest’ultimo campo l’impegno delle risorse pubbliche appare inadeguato soprattutto sul piano qualitativo e nell’istruzione specialistica, una debolezza a cui il soggetto pubblico sta tentando di rimediare con forme di cooperazione col settore imprese e con una riformulazione dei percorsi di insegnamento per stimolare l’orientamento verso le discipline scientifiche. L’investimento pubblico in istruzione e formazione, purtroppo, è stretto congiuntamente dalla necessità di correggere squilibri di bilancio di lunga data e dall’assorbimento di risorse pubbliche per spese cosiddette obbligatorie, tra cui quelle a carattere sociale.

L’anno scorso la politica di bilancio ha fatto registrare qualche progresso insieme ad alcune importanti deviazioni dal percorso programmato. Nell’insieme ha avuto un gran peso nella resilienza del sistema socioeconomico, come si può dedurre dal dato del rapporto tra spesa pubblica e prodotto interno. Il rapporto si colloca al 55%, livello relativamente elevato anche nel confronto con il 2019, quando era al 48,5%. La pandemia ha comportato tra le sue conseguenze la dilatazione della spesa pubblica al punto che più della metà del Pil è mediata dal ruolo del bilancio pubblico. Il ridimensionamento di questo rapporto dal picco del 56,8% nel 2020 sta avvenendo negli anni gradualmente sotto la duplice pressione del contenimento del disavanzo e del debito, e delle limitazioni all’aumento della pressione fiscale.

Benché l’incremento della spesa nel 2023 sia stato inferiore alla dinamica dei prezzi (3,8% contro 5,3% del deflatore Pil) e a quella delle entrate (6,4%), il disavanzo di bilancio (7,2%del Pil) non si è ridotto a quanto programmato (5,7% del Pil). Sul mancato raggiungimento dell’obiettivo ha influito la contabilizzazione per competenza del credito di imposta per il Superbonus insieme all’accelerazione delle richieste del beneficio. L’aggiustamento dello squilibrio dovrebbe continuare nei prossimi anni secondo le nuove regole del Patto di Stabilità col risultato di restringere le possibilità di usare la leva di bilancio per dare resilienza e continuità allo sviluppo.

L’anno scorso si è realizzato un bilanciamento più apparente che reale tra aggiustamento ed investimento sulla crescita futura, come si può dedurre dai recenti dati dell’Istat. È stato ottenuto modificando leggermente la composizione della spesa per ampliare gli investimenti pubblici (+26% circa) e i contributi agli investimenti delle imprese (+23,4%). Grazie anche alla minore spesa per interessi, si è riportato il saldo della bilancia corrente in positivo dopo un triennio di valori fortemente negativi. In contrasto, il saldo primario (al netto degli interessi versati), pur riducendosi del 16,7%, continua a essere in rosso (-3,4% del Pil).

Nondimeno, il debito pubblico, che secondo la Nadef sarebbe dovuto rimanere attorno al 140% del Pil, si è ridotto al 137,3%, non come conseguenza di una maggior crescita reale, né per un irrealizzato saldo primario in positivo, ma principalmente per la dilatazione dei valori nominali del prodotto interno dovuta all’inflazione. In breve, l’irrefrenabile avanzare della spesa sociale, in particolare per pensioni ed assistenza, nonché di quelle cosiddette “obbligatorie” tende a tarpare il ruolo della leva del bilancio pubblico come fattore di resilienza e di crescita duratura.



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