Il regista turco operante in Germania, Ilker Çatak, con “La sala professori” (2023) realizza un film di notevole interesse, seppur non impeccabile. La lettura del preside Eusebio Ciccotti
Eccoci dentro una modernissima scuola, nel Paese-locomotiva d’Europa, la Germania. Le prime belle inquadrature, mobilissime, ci sballottano in un istituto che da noi si chiamerebbe, “istituto comprensivo”. Solo che in diversi Paesi d’Europa non vi sono le “superiori” distinte dalle “medie” (come in Francia o in Italia o in Finlandia): il loro comprensivo va dalla primaria alla prima sezione della secondaria di secondo grado, ossia sino a studenti di 16 anni.
Scale larghe e comode per i piani superiori, spaziosi ballatoi, un androne somigliante a un piccolo piazzale, aule dotate di LIM, palestra confinante con un verde giardino. Una sala professori con macchina del caffè. Istituti così li abbiamo anche in Italia. Ci conforta che anche qui, come in Italia, ci siano furti di denaro e oggetti vari. Davanti all’ennesima sottrazione di contante dal soprabito di un docente, siamo in una seconda media, riunione d’urgenza.
La dirigente convoca i docenti e i due ragazzi rappresentanti di classe. Il professor Liebebwerds (lingua tedesca), dai modi bruschi, interroga i due minori. La professoressa Nowak (matematica e scienze motorie), si oppone. Ma poi il docente riesce a farsi indicare un nome dall’elenco della classe. Chiamato il “colpevole”, l’apparente sicura preside Gummich (la perfettamente nervosa Bettina Bohm) gli fa svuotare il contenuto del portafoglio: troppe banconote, sentenziano gli adulti. Nel taglio successivo due genitori, dalla pelle olivastra, seduti in presidenza. “Ha pensato a mio figlio perché siamo turchi!”. Attacca la madre. “È una accusa di razzismo – rincara il padre -, nostro figlio non ruba. Lui sa che gli spezzerei le gambe se lo facesse. I soldi li ha avuti stamattina per acquistare un nuovo gioco per il computer”. Preside e docenti si scusano.
La Nowak (Leonie Benesch: recita non solo con gli occhi, ma con ogni muscolo del viso: brava quanto la Kim Novak di Alfred Hitchcock), dalla grande empatia e chiarezza di esposizione, sempre con il sorriso mentre spiega, insegna ai ragazzi che prima si osserva e poi si definisce. Lascerebbe la questione del furto se non notasse che una collega, in sala docenti, rubacchia il resto delle monetine della macchina del caffè. Escogita la trappola. Lascia il suo giaccone sulla sedia, con i soldi nel portafoglio, e accende il computer sul tavolo, chiudendolo, di fronte al soprabito. Quando successivamente vede la ripresa, ecco inquadrato il braccio con un pezzo di una camicetta a fiori, mentre sottrae il portafoglio dalla giacca.
Gira per l’istituto: sala professori, corridoi, ma anche l’adiacente ufficio amministrativo. La segretaria Khun (Eva Lobau: sottilmente ambigua) ha quella camicetta. Mostra il video alla preside. Convocata la signora Kuhn, questa reagisce gridando istericamente, dichiarandosi innocente. Non viene più a scuola. Ufficialmente “in ferie”. La voce si è sparsa. Suo figlio, il dodicenne Oskar (Leonard Stettnisch: recita da adulto consumato), è nella classe della Novak. Il gruppo classe si divide: colpevolisti e innocentisti. Oskar subisce bullismo verbale dai compagni. Lei, lo difende, e un giorno gli regala il cubo di Rubik
Intanto i ragazzi della redazione del giornale scolastico, chiedono una intervista alla Novak. Accetta. Pian piano le fanno pesare la sua nazionalità polacca, e le accuse non provate a carico della madre di Oskar, oltre all’abuso per aver registrato immagini a scuola. La giovane e bella prof. Novak è in crisi. Poco dopo Oskar esasperato dagli attacchi di bullismo dei compagni, ma sempre difeso dalla Novak, che vuole solo la verità, spacca il vetro della porta della sala docenti, entra e ruba dalla borsa della Novak il portatile. Fugge da scuola verso il centro della città, rincorso dalla Novak. Si fronteggiano su un ponte che sovrasta il fiume della città. Si guardano immobili. La docente e l’alunno. Il portatile vola giù tra le tranquille acque che scorrono.
Il giorno dopo Oskar è a scuola. Al banco. “Oskar, cerca di capire. Sei sospeso. Devi andare a casa”, gli dice il prof. Liebenwerds. Non si muove. “Se non vai a casa, ci costringi a chiamare la polizia”, aggiunge la preside. Oskar non si stacca dal banco. La madre non risponde al telefono. La classe è vuota. Un interminabile giorno. È il crepuscolo. Piove. La Novak si chiude dentro con Oskar, per difenderlo dalla preside e dai due docenti che hanno perso la pazienza. Inizia a correggere i compiti. Si capisce che vuole bene al ragazzo. Oskar tira fuori dallo zainetto il cubo di Rubik. Muove i quadratini rapidamente, in pochi secondi mostra i lati del cubo con i diversi colori. Oskar pur sapendo che la madre ha rubato cerca di farsi perdonare dalla scuola, da chi ha fiducia in lui. Dalla Novak. È sera. Due poliziotti lo portano via con la sedia, alzandolo verso il cielo in un solenne procedere surreale, da Miracolo a Milano.
Il “garbuglio” scolastico del turco Ilker Çatak, un “pasticciaccio” che rimane insoluto, alla Carlo Emilio Gadda (lì un cadavere; qui il simbolico cadavere è la “cattiva” educazione degli adulti: preside, docenti, genitori lontani dalla verità e dalla vera comunicazione), è forse uno dei racconti più riusciti sul binomio “scuola-cinema” di area tedesca. (Ad un certo punto sulla lavagna ci sono disegni e scarabocchi che alludono a L’angelo azzurro di Josef Von Sternberg).
La scelta registica della camera incollata ai personaggi e in continuo movimento, con quei back-travelling a precedere le rapide camminate della Novak lungo i corridoi, ci rimanda al Laurent Cantet di La classe. Seppur non limato nella sceneggiatura (i ragazzi sono bravi nello spiegare l’eclissi secondo Talete, ma il giorno dopo confondono astrologia con astronomia) il film presenta il tema della disonestà educativa e intellettuale con estrema chiarezza. Sul piano della ricostruzione documentaria del sistema educativo tedesco non ci sfugge l’inesperienza della preside che chiede ai minori di svuotare il portafoglio e sentenziare sulla colpevolezza di un minore con grave sufficienza. Auguriamoci sia solo una variante creativa.