I fondi del Pnrr possono contribuire, indubbiamente. Ma vanno spesi bene. Guardando al futuro più che al passato. E comunque bisognerebbe fare meglio. Il tempo a disposizione non è molto, ma finché c’è vita, c’è speranza. Il commento di Gianfranco Polillo
I nuovi stanziamenti per il Pnrr e per il Giubileo 2025 saranno sufficienti per arrestare il declino di Roma Capitale? Secondo il sindaco Roberto Gualtieri si tratterebbe di circa 13 miliardi (newsletter del 12 marzo 2024), sommando le varie fonti di finanziamento: quelle già indicate, più le risorse del Bilancio capitolino, dello Stato e dei soggetti privati. Parafrasando una vecchia canzone del Quartetto Cetra, sarà vero oppure no? La cifra indicata è pari a due volte le entrate previste dal bilancio comunale per l’anno in corso (al netto dei prestiti, delle anticipazioni del cassiere e delle partite di giro) valutate in 6,2 miliardi.
Le cifre ufficiali, a loro volta, parlano di 1,33 miliardi per il Giubileo e di 1,15 per il Pnrr. Siamo quindi abbastanza lontani da quell’iperbole. Si deve solo aggiungere che la Commissione Speciale Piano nazionale di ripresa e resilienza dello stesso Comune fa notare che le somme previste a bilancio per gli investimenti sono pari a 800 euro per abitante, contro i 2,1 di Milano. Con una differenza di circa il 70 per cento. “Divario” che difficilmente potrà essere colmato dalle risorse del Pnrr e del Giubileo. Siamo quindi di fronte ad un nuovo episodio della saga di Tom Cruise: Missione impossibile?
Ed allora basterebbe scorrere le pagine di un recente report della Banca d’Italia (L’economia di Roma negli anni 2000) per avere contezza di quanto sia difficile vincere quella sfida. Secondo questo studio, Roma ha perso terreno sia nei confronti delle altre Capitali europee, sia rispetto alle altre città metropolitane che punteggiano il territorio italiano. Rispetto all’Europa, come contributo al Pil nazionale, si colloca al penultimo posto. Pur scontando il carattere policentrico dell’Italia rispetto agli altri Paesi, la relativa tabella, riferita ai 27 partner Ue, è impressionante.
Peggio di Roma è solo Berlino, le cui vicende politiche, tuttavia, possono ampiamente giustificare quella collocazione. Ma Roma perde anche nel confronto con le altre città metropolitane. Il suo valore aggiunto, in termini dinamici, è nettamente inferiore. Resta ovviamente lo stock accumulato negli anni passati. Ma sono i classici gioielli di famiglia che, alla fine, andranno svenduti se, nel frattempo, non si cambierà registro. Altro dato: la drastica inversione di tendenza. La situazione, infatti, in entrambi i casi peggiora a partire dal 2008.
Da quel momento lo scarto con gli altri termini di paragone cresce progressivamente. Resta allora da capire quali siano state le cause di questa imprevedibile retrocessione. Argomento particolarmente ghiotto se si prende in considerazione la serie storica dei dati Istat (Contesto macroeconomico) sul contributo regionale alla crescita del Pil nazionale. Considerato che il Pil di Roma è pari a circa il 75 per cento del Pil del Lazio, questa relazione porta alla conclusione che le due realtà sono entrambe unite in un “insolito destino”. Se Roma regredisce, anche il Lazio langue. Se la prima non ride, la seconda piange. Osservazione che dovrebbe spingere verso una più stretta collaborazione. Cosa che, in passato, si è vista poco.
La situazione del Lazio è simmetrica. Anche in questo caso il suo contributo alla crescita del Pil nazionale è in forte caduta. Nella serie storica, che risale al 1995, la perdita è di circa 10 punti del suo potenziale produttivo. La perdita maggiore rispetto a tutte le altre Regioni, comprese quelle del Mezzogiorno. Anche in questo caso l’inversione di tendenza si ha nel 2007. In precedenza, invece, il Lazio, insieme all’Emilia Romagna, aveva mostrato una progressione maggiore, collocandosi ai primi posti.
Il 2007 (annus horribilis) è stato quello della Global Financial Crisis; segnato dal fallimento delle Lehman Brother e dalla caduta del valore dei prestiti “subprime”. I suoi riflessi, ancora oggi poco sviscerati, hanno cambiato il volto del Pianeta: dalle “primavere arabe” all’involuzione imperiale di Putin, che ha abbandonato il progetto di Pratica di Mare. In Italia le conseguenze sono state devastanti ed hanno portato direttamente alle vicende del 2011, che segnarono la fine dell’ultimo Governo eletto direttamente dal popolo. Nella storia di questi ultimi anni, c’è quindi un “prima” ed un “dopo” che occorre analizzare.
Nei primi anni dell’euro l’Italia aveva avuto un tasso di crescita maggiore, che tra l’altro aveva consentito una riduzione del rapporto debito/Pil, Come indicato dal Governatore della Banca d’Italia nelle sue Considerazioni finali del maggio 2014 (pag. 10). Quel modello era caratterizzato da una prevalenza dei consumi interni e degli investimenti rispetto al contributo offerto dall’estero. Erano gli anni delle vacche non proprio grasse, ma almeno in carne. Con gli italiani che, a causa della bassa “produttività totale dei fattori”, vivevano al di sopra delle proprie possibilità. Consumando di più, rispetto a quanto erano in grado di produrre. La differenza era colmata da un maggior flusso di importazioni sulle esportazioni. Con un deficit continuamente finanziato dal ricorso al debito estero.
Nel 2014 si era toccato il fondo. Il debito cumulato aveva raggiunto i 410 miliardi di euro. Ed era risultato pari al 25,1 per cento del Pil. Nel frattempo tutti i parametri finanziari, a partire dagli spread sui titoli di stato (570 punti base), andavano fuori linea. Toccò a Mario Monti, chiamato al capezzale della politica, rimettere le cose a posto, dal punto di vista finanziario: anche se incurante delle conseguenze ultime del suo operare. La sua politica di austerity portò al fallimento di quelle imprese che avevano operato ai margini del mercato. Con una perdita di circa il 25 per cento del potenziale produttivo esistente. L’aumento del carico fiscale fu devastante, così come il congelamento dei salari.
Alla forte caduta della domanda interna, seguì il progressivo riequilibrio della bilancia dei pagamenti, grazie alla crescita delle esportazioni. Il relativo surplus consentì, nei successivi 8 anni, di pagare tutti i debiti con l’estero. Ed andare oltre. Fu così che l’Italia da debitore si trasformò in un Paese creditore. Crediti che nel 2022 raggiunsero i 137 miliardi di euro. Pari al 7,5 per cento del Pil. Negli 8 anni che vanno 2014 al 2022 lo sforzo finanziario, in termini di risanamento, fu di 547 miliardi di euro. Quasi il 30 per cento del Pil dell’ultimo anno considerato.
Ma per il resto dal paradiso all’inferno. I 7 anni biblici della carestia. Segnati dal blocco dei salari e dalla stretta finanziaria: necessari per reggere alla concorrenza degli altri Paesi. E far sì che le esportazioni divenissero il traino dello sviluppo. Quasi un ritorno agli anni 60. Seppure ad un tasso di crescita infinitamente più basso. Periodo duro. Ma non per tutti. Con alcune ragioni, quelle più dinamiche, in grado di difendersi meglio. Ed ecco allora il concentrarsi dello sviluppo nei territori del Nord. Trentino, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e (solo in parte) Toscana. Il nuovo pentagono della crescita che aveva preso il posto del vecchio triangolo industriale.
Si spiega così la crisi del Lazio e di Roma, senza voler minimamente sottovalutare la cattiva politica delle singole amministrazioni. Che, tuttavia, fu anche caratteristica del passato. Si può uscire da questa depressione? A livello nazionale le cose stanno nuovamente cambiando. Il Covid prima, l’Ucraina poi, gli attacchi di Hamas e le rappresaglie Houthi stanno gelando le attese. Il vento dei processi della globalizzazione si è quasi fermato. Lo scorso anno il commercio estero è diminuito di quasi il 5 per cento.
In Europa vanno meglio quei Paesi, come l’Italia o la Spagna, che hanno più puntato sulla domanda interna, senza per altro disdegnare l’apporto dell’estero. Un nuovo cambiamento, seppure ancora incerto e soggetto ad imprevedibili torsioni, appare all’orizzonte. Sarà, anche, un tonico per le aree finora svantaggiate? Dipenderà soprattutto da loro. Se saranno in grado di rilanciare gli investimenti (pubblici e privati), accrescere la “produttività totale dei fattori” per tamponare l’occupazione povera di questi ultimi anni, ridurre i carico fiscale ed aumentare l’efficienza della loro macchina amministrativa.
Un programma di governo? Indubbiamente.
Ma anche una sorta di ultima spiaggia. Perché indietro non si torna. I primi anni dell’euro furono un periodo effimero, con successi più apparenti che reali. E le cui leggerezze furono pagate duramente nel corso degli anni delle vacche magre. Dimenticarsi di tutto ciò sarebbe più che da incoscienti da illusi. I mercati di oggi non sono più quelli di ieri. L’apprezzamento del rischio è divenuto, nel frattempo, la bussola, quasi istantanea, che ne determina le relative scelte. Meglio allora non stuzzicare il can che dorme. Potrebbe mordere. E porre fine all’incantesimo.
I fondi del Pnrr possono contribuire? Indubbiamente. Ma vanno spesi bene. Guardando al futuro più che al passato. Non basta spendere solo il 21 per cento delle risorse, come avviene nel Lazio, per la macro area 3 (Sviluppo e crescita) o il 22 per cento, a Roma, per quel coacervo indistinto della M1 (Digitalizzazione, innovazione, competitività cultura e turismo). Bisognerebbe fare meglio. Il tempo a disposizione non è molto. Ma finché c’è vita, c’è speranza.