La battaglia del ministero dell’Università, marginalizzare i cattivi maestri e dare ai tanti don Abbondio in toga da Magnifico Rettore il coraggio che gli manca, è di estrema importanza. Un esempio per gli studenti, un servizio alla democrazia
C’è un ministro della Repubblica che sta ingaggiando una battaglia culturale e legalitaria dal cui esito dipenderà parte non marginale del nostro futuro: è il ministro dell’Università Anna Maria Bernini. Il suo contraltare non sono gli studenti, ma i docenti e gli organismi accademici.
Gli studenti sono giovani e i giovani, si sa, tendono ad esagerare. Li abbiamo descritti come “sdraiati”, apatici, disinteressati alla Polis, perennemente ripiegati sulla propria immagine riflessa nei rispettivi smartphone come Narcisi contemporanei. Il fatto che, uscendo da questo schema, alcuni di loro assumano posizioni politiche massimaliste è in fondo un buon segno. Crescendo, e conoscendo, i più cambieranno idee, stile, approccio.
Ma quel che si può, entro certi limiti, tollerare negli studenti è intollerabile nei docenti. Il fenomeno non è nuovo. Ha ricordato Alessandro Sallusti sul Giornale che “il Manifesto della razza che nel 1938 portò alla messa al bando degli ebrei in Italia non fu scritto da podestà o gerarchi in camicia nera, bensì da una decina di professori e poi sottoscritto da decine di accademici che rappresentavano la crème della cultura italiana dell’epoca”.
Trent’anni dopo, nel ‘68 e poi, ancor peggio, negli anni Settanta, la storia si ripetè. Con analoga dinamica “fascista” tesa a negare il pluralismo e il valore del dubbio, il corpo accademico di molte università esaltò anziché sopire l’ideologismo e l’inclinazione alla violenza politica che caratterizzavano le minoranze organizzate dei propri studenti. “Brodo di coltura” del terrorismo brigatista furono, allora, in primo luogo le università e segnatamente le facoltà di Lettere e di Sociologia. Quelle del Nord benestante più di quelle del sofferente Sud. Alcuni professori furono veri e propri “cattivi maestri”, la maggior parte erano maestri spaventati e di conseguenza succubi.
Qualcosa del genere sta accadendo oggi. E sta accadendo su due fronti tra loro collegati: l’ottuso ma aggressivo conformismo della sottocultura woke e il sempre più diffuso antisemitismo mascherato da antisionismo. Quel che è accaduto negli atenei di Pisa, Torino e Roma è solo l’inizio: nei prossimi sette giorni sono annunciate mobilitazioni e scioperi nella maggior parte delle università italiane. Arrestare questa deriva significa cominciare a restituire agli studenti quello spirito critico e quei principi liberali che faranno di loro una classe dirigente affidabile. Per riuscirci, occorre che il corpo docente e gli organismi accademici la smettano di grattargli la pancia. Che lo facciano per convinzione o per viltà è uguale. In entrambi i casi, negano il metodo che nelle università dovrebbe essere la regola: “Dibattere – come ha detto Anna Maria Bernini – tesi e idee opposte nel rispetto e nell’ascolto reciproco”.
Sul Corriere della Sera di sabato, il professor Angelo Panebianco – in passato violentemente contestato all’Alma Mater di Bologna nell’indifferenza dei propri colleghi – l’ha messa così: “Come è possibile che tante università (il fenomeno è nato in quelle anglosassoni) abbiano tollerato al loro interno la formazione di ‘polizie etiche’, di guardiani del pensiero, censori/sbirri che decidono cosa è consentito e cosa non è consentito leggere, chi far parlare e chi no? Il presente e il futuro delle università, anche se non è chiaro a tutti, influenzeranno la sorte delle nostre democrazie. È sperabile che tanti docenti occidentali capiscano quanto grande sia il pericolo se si permette che a guidarle siano dei don Abbondio”.
Ecco, dunque, spiegata l’importanza della missione in cui è oggi impegnato il ministro dell’Università: marginalizzare i cattivi maestri e dare ai tanti don Abbondio in toga da Magnifico Rettore il coraggio che gli manca. Un esempio per gli studenti, un servizio alla democrazia.