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Ecco come la Cina ha sussidiato Byd. Le prime evidenze

Secondo un brief di un think tank tedesco, il governo cinese avrebbe sussidiato il colosso dell’auto elettrica con miliardi di dollari pur di dominare il nuovo settore. Un playbook in realtà predisposto anche per altre industrie, su cui la Commissione ha già alcune evidenze. Quali contromisure e scelte ora?

Il colosso dell’auto elettrica cinese Byd, che negli ultimi mesi si contende con l’americana Tesla il dominio del mercato EV a livello globale, è sicuramente la punta di diamante – insieme a Catl – dell’ecosistema cinese dei “New Energy Vehicle (NEV)” su cui Pechino punta come industria strategica, insieme alle rinnovabili e alle Ict avanzate per il dominio tecnologico e non solo.

Come mostrato in un’approfondita ricostruzione, Byd e Catl sono nati non solo con l’eterodirezione del governo centrale sulla tecnologia delle batterie e con il favore della politica industriale, ma anche per la spesso sottovalutata spinta innovativa e capacità manageriale dei loro fondatori. Tuttavia, è rimasto poco chiaro quanto, anche per la natura poco trasparente e multilivello tra Stato centrale e governi locali, i sussidi abbiano giocato un ruolo nell’ascesa di questi due giganti.

Se non fosse che ora la questione, dal dibattito accademico entra gioco forza a gamba tesa nel dibattito pubblico e tra i policymakers europei nel più ampio contesto economico e geopolitico. L’industria dell’auto elettrica è al centro di questa tensione, tra la necessità di decarbonizzare la flotta automotive con le direttive Ue e la posizione, al momento vincente, della Cina che da oltre un decennio ha prima individuato, poi scommesso e infine sussidiato la nascita di un ecosistema industriale incentrato sulle batterie al litio. Risultato? Oggi Byd si contende il trono con Tesla, l’unico produttore di EV occidentale ma con una supply chain sovraesposta sulla Cina, Catl ha più di un terzo del mercato delle batterie mentre i costruttori europei rimangono dubbiosi non tanto sui loro piani di elettrificazione, ma sulla capacità di rimanere competitivi senza certezze sul lato normativo ma soprattutto in un contesto di mercato che anche la Commissione vede, con tutta probabilità, viziato dall’ingerenza di Pechino.

Quanto quest’ultimo passaggio sia, oggi, dirimente per i produttori europei lo vediamo in Italia con il dibattito sul ruolo industriale di Stellantis, mentre il governo tramite il ministro Adolfo Urso (Mimit) non esclude la possibilità di portare un costruttore cinese (forse proprio Byd) nel nostro Paese. “Se Stellantis non arriva al milione di auto, spazi per altri produttori”. In sostanza: o la società controllata dalla Exor decide di scommettere, nuovamente, sull’Italia oppure pur di preservare e rilanciare i posti di lavoro nel settore si dovrà guardare fuori. Su questo punto, Carlos Tavarez, ceo di Stellantis, ha più volte confermato l’impegno dell’azienda in Italia, ma ha lanciato un vero e proprio avvertimento: “Se si apriranno le porte alla Cina, ciò potrebbe comportare conseguenze. Siamo pronti a confrontarci con i concorrenti cinesi, ma chiunque cerchi di introdurli sarà responsabile delle decisioni impopolari che dovranno essere prese”.

Dalle parole di Tavarez, si potrebbe intravedere un out-out: o noi, o loro, a voi la scelta. La logica del governo potrebbe essere quella di lanciare l’ipotesi cinese per riportare al tavolo Stellantis, se non fosse che la società con sede in Olanda ha tuttavia già in piedi una strategia a suo modo di delocalizzazione amica, o friendshoring (seppur quest’ultima parola, ormai inflazionata negli ultimi anni, suggerisca un flusso di investimenti e accordi con Paesi limitrofi per riportare la produzione fuori dalla Cina, seppur questo non sia del tutto sempre possibile senza qualche collaborazione con i fornitori cinesi). Lo vediamo con gli investimenti in stabilimenti e impianti in Serbia e Marocco. Il futuro di Stellantis in Italia, dunque, potrebbe essere già scritto anche per altri fattori, costi dell’energia in primis.

In secondo luogo, è la penetrazione possibile di Byd (e altre aziende cinesi, ma non i produttori di batterie come Catl con cui la collaborazione è già avviata) a preoccupare Stellantis e gli altri automakers europei, in un momento storico in cui la sovra-capacità produttiva cinese nel mercato domestico deve essere scaricata all’estero, puntando proprio sulle esportazioni prima di tutto nei Paesi in via di sviluppo (dove la presenza e crescita delle case EV cinesi è sicuramente meno ingombrante rispetto ad Usa e Unione Europea). E qui ritorniamo alla questione dirimente.

Secondo le stime preliminari del Kiel Institute for the World Economy (KIWE), think tank tedesco che consiglia il governo di Berlino, Byd avrebbe ricevuto almeno $3.7 miliardi in sussidi diretti dal governo cinese come parte del piano strategico di dominio di quest’industria tra quelle selezionate nell’ormai celebre “Made in China 2025”. Gli aiuti di Stato sarebbero aumentati da $220 milioni nel 2020 a $2.1 miliardi solo due anni dopo. Chiaramente per incentivare l’adozione degli EV molti Paesi hanno fatto ricorso ad incentivi al consumo o sgravi fiscali, tra cui Ue e Usa. Quello che differenzia la Cina è la natura plurima di questi sussidi, molti dei quali indiretti e spesso più difficili da tracciare e quantificare. Ma in particolare sono i primi, gli incentivi al consumo, a funzionare con un meccanismo diverso nel Paese asiatico dal momento che, come esplicitato nel policy brief, vengono pagati direttamente ai produttori piuttosto che ai consumatori e solo per gli EV prodotti in Cina, discriminando così i veicoli importati (che sono poco meno dell’1% del parco auto circolante).

Questa tipologia di sussidi, terminata alla fine del 2022, ha giocato un ruolo centrale in due modi: ha incentivato l’adozione degli EV ma soprattutto ha stimolato i produttori cinesi di batterie e componenti, dal momento che Pechino ha stabilito dei requisiti stringenti su performance tecniche dei pacchi batteria da installare nei BEV e nei PHEV, poi commercializzati da brand come appunto Byd ma anche Nio, Geely e SAIC. È proprio su questa natura di sussidi, che hanno facilitato la nascita dell’ecosistema dei veicoli elettrici, che l’Ue sta valutando di imporre tariffe commerciali retroattive anche per quei veicoli già importati in Europa, considerandone la natura discriminatoria.

Secondo i calcoli, Byd sarebbe stato il produttore che più di tutti ha beneficiato degli incentivi, con oltre $1.6 miliardi distribuiti per 1.4 milioni di NEV (che includono i veicoli a batteria, gli ibridi plug-in e a idrogeno), seguita da Tesla che rimane l’unico produttore occidentale a cui la Cina ha consentito di rimanere proprietario della sua gigafactory di Shanghai, a differenza delle joint venture stabilite con Volkwagen, General Motors, BMW e Toyota. In generale, anche per altre categorie di incentivi – come l’esenzione dalla tassa sull’acquisto, che rimarrà in vigore per tutti i NEV fino al 2027, per un valore di circa €68 miliardi. BYD è risultata essere il principale beneficiario rispetto alla concorrenza cinese, il che da una parte non stupisce considerando le sue quote di mercato. Altre forme di sussidio, più difficili tuttavia da tracciare, sono l’entità degli investimenti pubblici (per ripianare il debito o l’equity dell’azienda target) al di sotto dei valori di mercato, l’acquisto di importanti fattori di produzione (come l’acciaio e le batterie per veicoli elettrici) a prezzi bassi prezzi, o appalti pubblici discriminatori. Senza contare dei sussidi o di altre tipologie di supporto garantite dal governo (centrale o locale) ai fornitori di componenti o materiali, che rappresentano ormai una fetta rilevante del costo dei pacchi batteria.

“I dati empirici presentati in questo documento confermano le preoccupazioni e le accuse sollevate da molti partner commerciali nei confronti della Cina: la Cina sovvenziona fortemente le industrie manifatturiere che occupano un posto di rilievo nella sua agenda di politica economica”, si legge. Tra cui, appunto, l’industria dell’auto elettrica. Il punto è stabilire come il sistema di sussidi cinese, opaco e complesso, pensato per il mercato domestico e le imprese nazionali possa aver distorto le regole del commercio internazionale secondo le regole del WTO, nella misura in cui campioni come Byd ne abbiano infine beneficiato per l’espansione internazionale. Gli Usa con l’Inflation Reduction Act (IRA) dell’amministrazione Biden hanno già preso una posizione netta: rilanciare la produzione americana nella transizione all’elettrico, ma senza l’ingerenza cinese. L’Ue rimane in un guado: al momento l’agenda della Commissione non prevede una ‘guerra’ commerciale con la Cina, ma queste prime evidenze – che saranno sicuramente corroborate dall’indagine approfondita e di prossima pubblicazione – suggeriscono che delle contromisure andranno prese. Sarà una scelta politica, sicuramente influenzata dai risultati delle elezioni di giugno.

Se sarà ancora all-in su EV e decarbonizzazione, è molto probabile che saranno innalzate tariffe commerciali, impostando un dialogo con il governo cinese – che continua a stigmatizzare la posizione della Commissione come “protezionistica” e a sottolineare la superiorità tecno-commerciale delle sue aziende EV, con le parole del ministro del Commercio Wang Wentao – per negoziare lo stop degli incentivi ritenuti più dannosi per la concorrenza e la produzione di BEV delle case automobilistiche europee. Ma non è detto che sarà la misura più efficace senza un impegno ancor più spinto su una politica industriale consistente e, auspicabilmente, coordinata tra Bruxelles e industria automotive sulle necessità dei consumatori europei. Come ho appreso confrontandomi con analisti ed esperti di batterie, senza un level-playing field i costi di produzione cinesi, l’accesso diretto alle materie prime e la certezza di un mercato domestico più maturo rappresentano un ecosistema che attualmente i produttori Ue non dispongono.


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