Skip to main content

Difesa comune, se l’Europa fa i conti senza l’oste. L’analisi di Camporini

Dovrebbe essere ormai chiaro a chiunque che uno strumento militare comune o anche il solo impiego coordinato e sinergico delle risorse militari ha senso solo se si sa che cosa farne, se sono ben fermi gli obiettivi politici che si vogliono perseguire anche, ma non solo, con l’uso pur solamente ventilato delle capacità operative di unità armate. L’analisi del generale Vincenzo Camporini, del Gruppo dei 20

La dinamica accelerata degli ultimi mesi, con la crisi in Medio Oriente che non dà segni di avviarsi verso una qualsiasi forma di evoluzione, quella ucraina dove a linee del fronte pressoché stabilizzate continuano senza soste gli attacchi aerei a tutto il territorio, in una riedizione della strategia di Goering, il risorgere della minaccia terrorista e le incertezze politiche dovute alle prossime stagioni elettorali, questa dinamica ha rilanciato il dibattito sull’insostenibilità di un’Europa che nel suo complesso non appare disporre di uno degli strumenti chiave della politica verso l’estero: quello di un’adeguata e credibile capacità militare.

Si rinvigorisce quindi un dibattito che, avviato a valle dell’incontro di Saint Malo del dicembre 1998, dopo i solenni impegni dello Helsinki Headline Goal, ha attraversato fasi di stanca, per non dire di paralisi. Oggi si parla nuovamente di esercito europeo, di fondi europei per la difesa, addirittura con ipotesi di eurobond, ipotesi stroncata sul nascere da Berlino. Viene addirittura lanciata dalla presidente della Commissione l’ipotesi di un Commissario per la Difesa, senza peraltro dire come dovrebbe coordinarsi e dividere i compiti con la figura dell’Alto Rappresentante.

Per chi crede fermamente nella futura ever closer Union questo è un dibattito surreale, di chi vuole costruire un tetto senza prima elevare i muri di sostegno. Dovrebbe essere ormai chiaro a chiunque che uno strumento militare comune o anche il solo impiego coordinato e sinergico delle risorse militari ha senso solo se si sa che cosa farne, se sono ben fermi gli obiettivi politici che si vogliono perseguire anche, ma non solo, con l’uso pur solamente ventilato delle capacità operative di unità armate. Anche per il solo ruolo di mediatore di conflitti, un sagace analista ha affermato che bisogna avere un revolver carico in tasca.

Tutto ciò a monte della soluzione di una miriade di altri problemi di ordine organizzativo, di comando e controllo, di struttura produttiva e industriale, per i quali nel passato sono state provate soluzioni, sempre su base contingente e occasionale, come per le missioni in Bosnia e in Macedonia, a valle di quelle Nato, o per l’Artemis del 2003 in Congo. Tutto questo per dire che sul piano organizzativo non c’è molto da inventare, ma basta aver chiaro che cosa fare e avere la determinazione di farlo in modo sistematico.

Le circostanze citate ci dicono quindi che sul piano operativo, anche a livello strategico, il rapporto Ue-Nato si può reggere su basi sufficientemente solide e chiare, come bene evidenziato dagli accordi Berlin Plus circa l’utilizzo delle strutture di pianificazione e comando dell’Alleanza Atlantica, Shape, da parte dell’Unione europea, in caso di specifiche necessità. La struttura di comando peraltro è elemento chiave e irrinunciabile per una credibile e quindi efficace postura militare e disporne può essere il primo indispensabile mattone di quella ‘autonomia strategica’ a suo tempo evocata e da taluni intesa come lo strumento per allentare il vincolo transatlantico, mentre al contrario dovrebbe essere quello per assurgere a partner ‘near peer’ in grado di negoziare autorevolmente con Washington per la definizione di politiche condivise.

Venendo agli aspetti più squisitamente tecnici, più che a vagheggiare di un esercito europeo, sarebbe il caso di puntare più modestamente, ma più concretamente ad una standardizzazione degli equipaggiamenti e dei sistemi d’arma, in modo da abbatterne drasticamente i costi unitari e di esercizio e nel caso di operazioni congiunte da poter contare sulla possibilità di mutuo supporto fra contingenti di diverse nazionalità attivando catene logistiche unitarie.
Ma anche questo appare un obiettivo difficilmente raggiungibile, per concrete motivazioni legate alla politica industriale.

Uno dei più pesanti fattori che incidono pesantemente sulla potenzialità operativa dei paesi europei nel loro complesso è la frammentazione della base industriale della difesa, che impedisce il conseguimento delle economie di scala necessarie per assicurare un sufficiente rendimento delle spese per la difesa di ciascun paese: in sintesi, si dovrebbe spendere di più, ma prima si deve spendere meglio. Ma per ovvie motivazioni legate alla difesa dell’occupazione e della base tecnologica nazionale, ogni governo difende strenuamente i propri campioni, come Dassault, Krauss-Maffei e Leonardo, per citarne solo alcuni.

Una reale politica di europeizzazione della difesa deve quindi comprendere una strategia per indurre i grandi complessi industriali a forme sempre più strette di collaborazione allo scopo di attuare progetti comuni per i principali sistemi d’arma: non si dovrebbero più verificare situazioni come quella dello sviluppo contemporaneo di due velivoli da combattimento, come Rafale e Eurofighter, con una duplicazione dei costi di sviluppo e un incremento inaccettabile dei costi di produzione e invece ci stiamo ricascando con GCAP e SCAF. La strada è quella di incentivi irrinunciabili, secondo il modello dello European Defense Fund, ma con risorse superiori di due ordini di grandezza.

Il modello Next Generation Eu, pur nella sua specifica eccezionalità, potrebbe indicare la strada, che al momento non appare percorribile per la rigida opposizione di molti stati membri, a partire dalla Germania, ma l’acuirsi delle crisi internazionali potrebbe indurre a rapidi ripensamenti, come per la crisi pandemica, aprendo la via a una nuova stagione, in cui le capacità operative dei paesi europei nel loro complesso, a sostegno di una coerente e condivisa politica estera comune, potrà ridare all’Ue il ruolo di interlocutore paritario che oggi francamente non ha.


×

Iscriviti alla newsletter