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E se la fast-culture fosse in realtà una buona pratica? Scrive Monti

Le nuove tecnologie consentono di superare vecchi pregiudizi e favorire una reale comprensione di ciò che possa realmente appassionare le persone, che non necessariamente dovrà essere un capolavoro dell’arte o dell’architettura. Accettiamo che il fast-tourism risponde ad esigenze conoscitive specifiche, ma lasciamo che a criticarlo sia chi comprende tali esigenze. Il commento di Stefano Monti

Qualche giorno fa, Alfonso Berardinelli, sull’Avvenire, ha sottolineato i pericoli del fare “turismo culturale senza sapere cosa sia la cultura”. Al centro della riflessione, il rischio di sprecare l’esperienza culturale attraverso l’uso meccanico dello smartphone. Nel frattempo, in uno studio recentemente apparso su Nature, dei ricercatori della Queen Mary University di Londra hanno dimostrato che i bombi sono in grado di sviluppare apprendimento sociale.

Parallelamente, alcune teorie evoluzioniste, pare mettano in dubbio il binomio che pone alla base dello sviluppo cerebrale della nostra specie e il progresso tecnologico, suggerendo ci possa essere una più forte connessione tra sviluppo del cervello e crescente complessità del sistema sociale. Presi congiuntamente, questi studi dovrebbero far riflettere sul ruolo della cultura nella nostra società, e sul ruolo dei consumi culturali. Se al centro della cultura c’è il meccanismo attraverso il quale un individuo riesce ad apprendere ciò che, per sola esperienza diretta, non riuscirebbe mai ad apprendere nel corso della sua intera esistenza, allora il concetto di cultura deve mirare sempre più ad una nuova interpretazione di ciò che si intende per personalizzazione della fruizione culturale.

Negli ultimi anni, infatti, il concetto di “personalizzazione”, anche sospinto dalle innovazioni tecnologiche, è sempre stato implicitamente associato ad un’azione accrescitiva: si personalizzano i contenuti affinché qualsiasi utente ne possa vedere di più. Un meccanismo che, nella sua semplicità, regola più o meno il funzionamento di molti social network e che spesso il settore culturale e museale hanno tentato di implementare anche nelle fruizioni culturali.

Lo stesso Berardinelli, nella sua critica all’uso imitativo e quantitativo degli smartphone, ne propone una visione che per quanto possa all’apparenza sembrare distante, si basa sul medesimo meccanismo: “Il turista pensa qualcosa, dice agli altri qualcosa dopo aver guardato la Pietà di Michelangelo o la Vocazione di Matteo di Caravaggio? È avvenuto qualcosa nella sua mente? C’è anche naturalmente da rimanere in silenzio, senza smettere magari di pensarci ancora per qualche giorno”.

Qui la dimensione accrescitiva non riguarda il numero di contenuti (ti faccio vedere più contenuti), ma riguarda il numero di ore di riflessione legate a quei contenuti. Frequenza contro persistenza. E se invece bastasse meno? Se per una persona che ha vissuto in un’altra parte del mondo, fosse utile semplicemente entrare in contatto fisico con un determinato monumento, senza nessun altro approfondimento? Se fosse sufficiente, per alcuni, essere ammaliati dalla bellezza intrinseca di alcune opere d’arte o disturbati dalla ricercata anomia di altre?

Personalizzare i contenuti può anche voler dire ridurre: ridurre il tempo di esposizione, ad esempio, o selezionare il numero di opere da guardare sulla base dei propri reali interessi. Trattiamo tutto ciò che è cultura con una visione totalizzante e in qualche modo assolutista: ogni opera merita grande attenzione, ogni monile archeologico può raccontare intere storie e per questo merita di essere analizzato, compreso. Ogni dipinto esposto in un Museo va assolutamente visto. Di ogni monumento va assolutamente compreso il proprio contesto storico.

Questo atteggiamento, per quanto non si possa dire sbagliato, è però irrealizzabile. Se tutto è importante per la storia, non tutto lo è per le persone.
Atteso dunque che non tutte le opere di un Museo verranno viste con la stessa attenzione, quanto accade abitualmente nei Musei è la ressa per il “capolavoro”. Tale ressa è in parte “indotta”: non avendo delle basi per poter decidere, il visitatore si troverà dunque a dover prestare almeno attenzione alle opere più famose, che sono stabilite come le più importanti da persone che non necessariamente hanno una base esperienziale e conoscitiva comune con quella della maggior parte delle persone.

Personalizzare il percorso di visita, in questo senso, potrebbe anche portare a risultati inattesi, con must visit differenti da persona a persona, che potrebbero in questo modo sviluppare un rapporto più autentico con l’opera d’arte o, più in generale, con la cultura. Chi dice che per una persona che proviene dagli Stati Uniti la visita al Colosseo debba essere davvero accrescitiva? Chi è in grado di sostenere che la visita al Colosseo possa aggiungere valore aggiunto all’esperienza di viaggio? Ancora, chi può davvero sostenere che la visita guidata al Colosseo accresca quella persona più di quanto possa fare una passeggiata nel centro città?

L’assolutismo della cultura si associa ad una musealizzazione che non sempre coincide con ciò che accresce l’individuo. Per alcuni, registrare la possibilità di vivere in una città in cui girare l’angolo e trovarsi il Colosseo è normale, potrebbe essere molto più stimolante e accrescitivo della storia del Colosseo, e forse della storia dell’intero impero romano. Se non è possibile stabilire una relazione di causa-effetto tra strumenti e cervello, allora è ancor meno possibile stabilire una causazione diretta tra “livello di artisticità” attribuito ad una specifica opera ed effetto che genererebbe sulle persone al netto dei condizionamenti sociali.

Le nuove tecnologie consentono di superare vecchi pregiudizi, e favorire una reale comprensione di ciò che possa realmente appassionare le persone, che non necessariamente dovrà essere un capolavoro dell’arte o dell’architettura. Accettiamo che il fast-tourism risponde ad esigenze conoscitive specifiche. Lasciamo che a criticarlo sia chi comprende tali esigenze, e non una persona che ha trascorso ore, per propria esigenza intima, a contemplare gli effetti che la visione di un’opera d’arte ha impresso sulla propria coscienza. Perché si sta applicando una visione lineare che banalizza, e di molto, la natura del rapporto tra essere umano e arte.


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