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La cauta risposta di Tel Aviv a Teheran ha una spiegazione militare

L’attacco israeliano contro Isfahan di venerdì notte, sembra studiato per evitare ulteriori escalation. Dietro questa scelta c’è la volontà di collaborare con i partner internazionali. Ma anche quella di non mettere in crisi il proprio apparato bellico

Israele avrebbe compiuto una nuova mossa all’interno del suo botta e risposta militare con la Repubblica islamica dell’Iran. Nella notte di venerdì 19 aprile la città iraniana di Isfahan, sita nell’area centrale del Paese, a più di quattrocento chilometri a Sud della capitale Teheran, sarebbe infatti stata bersagliata da tre droni di Tel Aviv, i quali però sarebbero stati abbattuti dai sistemi di difesa contraerea iraniani. Isfahan non è certo un obiettivo casuale: nella città sono presenti una centrale nucleare ed una base militare, i quali però non sarebbero stati toccati dal blitz israeliano. Danni minimi, dunque, in un’azione militare che ha tutti i connotati di un’azione di bandiera atta ad evitare di alimentare ulteriormente l’escalation con l’Iran. Una scelta dettata da fattori differenti. Da una parte c’è l’intenzione di Tel Aviv di mostrarsi ricettiva alle pressioni dei partner internazionali, preoccupati per un allargamento del conflitto in Medio Oriente. Dall’altra, c’è la consapevolezza da parte dello Stato ebraico dei limiti del proprio apparato militare, e dei rischi che un’eventuale escalation potrebbe avere sulla propria capacità portare avanti in modo efficace le operazioni belliche.

Alcuni esperti, secondo quanto riporta Foreign Policy, temono infatti che le Israeli Defence Forces non abbiano le risorse sufficienti a gestire l’apertura di un altro fronte con l’Iran o con la milizia libanese Hezbollah ad esso affiliata, dopo essere state messe alla prova da più di sei mesi di urban warfare nella densissima Striscia di Gaza e con l’opzione di una grande operazione terrestre nella città meridionale di Rafah che al momento pare sospesa, ma che è ancora sul tavolo.

Il ritmo di combattimento che vede coinvolte le truppe israeliane a Gaza è diminuito significativamente nelle ultime settimane, e buona parte di esse è stato al momento ritirato dalla striscia. All’inizio di aprile era rimasta a Gaza solo una brigata delle venti schierate durante l’apice del conflitto. Ma la situazione potrebbe cambiare presto. La campagna per distruggere Hamas si sta rivelando una sfida per le Idf, con i militanti di Hamas che sono riusciti a riorganizzarsi in alcune aree, tra cui l’ospedale Al-Shifa di Gaza City, facendo sì che la regione rimanga una zona di battaglia attiva. Una ripresa delle operazioni nell’area è dunque tutt’altro che improbabile.

Anche lungo il confine settentrionale sembra che qualcosa si stia muovendo. Fino ad ora il confronto con Hezbollah si è limitato agli attacchi missilistici della milizia libanese contro Israele (che hanno causato un numero relativamente basso di vittime) e agli attacchi aerei israeliani contro gli obiettivi di Hezbollah in Libano. Ma alla fine di marzo, l’Idf ha annunciato un programma di addestramento nel nord di Israele per preparare le unità militari a “piani offensivi”.

Il conflitto esploso dopo gli attentati del 7 ottobre ha costretto Israele alla più grande mobilitazione di riserve dalla guerra dello Yom Kippur, che è ora la più lunga mai realizzata dallo Stato ebraico sin dagli anni ’80. Tutti questi fattori contribuiscono ad alimentare timori degli analisti sul rischio di overstretching per le Idf, qualora il confronto con l’Iran si andasse ad allargare. Tra questi analisti c’è Jonathan Lord, ex funzionario della difesa statunitense e assistente al Congresso, e ora direttore del programma di sicurezza per il Medio Oriente presso il Center for a New American Security:

“Israele ha un costo di opportunità significativo e rischia di rientrare in scambio di tennis con l’Iran. Hanno appena richiamato due brigate di riserva dell’Idf, sospetto in preparazione della continuazione delle operazioni di combattimento a Gaza focalizzate su Rafah. Quindi non è che non ci sia nient’altro in corso”, ha detto Lord.

La logistica per un’operazione di terra a Rafah sarebbe incredibilmente complessa, e richiederebbe ingenti risorse. Gli Stati Uniti e altre potenze occidentali hanno chiesto a Israele di mostrare un piano fattibile per spostare dalla città il milione e mezzo di rifugiati lì presenti, ma finora nessun’opzione valida è stata presentata. Mentre i funzionari israeliani continuano a sostenere che se non riusciranno a far uscire da Rafah i circa tremila combattenti di Hamas rimasti, Israele fallirà nel suo obiettivo di sradicare il gruppo dalla striscia.

A Lord fa eco David Des Roches, professore associato presso il Near East South Asia Center for Strategic Studies e colonnello dell’esercito americano in pensione, che afferma che la componente di terra delle Idf sia già al limite. Des Roches ha anche prospettato che in uno scontro regionale Israele impiegherebbe forze aeree e missilistiche: “Non invieranno una brigata di truppe in Siria o in Iraq”.

Ma neanche queste forze hanno risorse infinite. E se è vero che l’Iran ha un numero limitato di lanciamissili, cosa che potrebbe creare un collo di bottiglia nel processo di fuoco contro Israele, anche gli israeliani devono affrontare un potenziale collo di bottiglia: dover rifornire le batterie di difesa missilistica Iron Dome e Arrow. “Se questa diventa una cosa a giorni alterni o settimanale, non so per quanti giorni di attacchi Israele possa farcela”, sottolinea Des Roches.


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