Lo Stato ebraico si prepara alla reazione iraniana dopo il bombardamento di Damasco. Israele è consapevole che Teheran agirà per rappresaglia, anche se ragioni strategiche fanno pensare che la Repubblica islamica potrebbe scegliere un gesto simbolico. I problemi per gli Usa e gli spazi per l’Is
I funzionari di difesa e sicurezza israeliani hanno fatto filtrare alla stampa più di un’informazione sulle indicazioni riguardo a un potenziale attacco dell’Iran sul territorio israeliano. Teheran potrebbe utilizzare missili balistici a lungo raggio, droni o missili da crociera per rappresaglia al pesante colpo subito a Damasco, dove pochi giorni fa è stato colpito il cortile dell’edificio consolida a lato dell’ambasciata e sono stati uccisi alcuni ufficiali dei Pasdaran — tra cui l’importante generale Mohammed Reza Zahedi, uno dei più alti in carica delle forze armate teocratiche iraniane. Ieri, per aggiungere simbolismo al momento, è stata la Guida suprema Ali Khamenei a onorare le bare delle vittime del raid nella capitale siriana. Raid su cui Israele non ha ammesso responsabilità, come fa regolarmente dal 2013, nell’ambito di una campagna contro il rafforzamento iraniano in Siria e Iraq (e Libano), condotta con ambiguità strategica.
Secondo le informazioni che anche la Cia ha fatto arrivare sui media, l’attacco iraniano potrebbe esserci nel giro di 48 ore. Nella serata di giovedì, il ministero della Salute israeliano ha convocato tutti i dirigenti ospedalieri a un incontro per prepararsi alle minacce. È stato esplicitamente richiesto di garantire personale adeguato questo fine settimana. Sono state anche alzate le procedure di sicurezza in tutte le ambasciate — in alcuni casi è stato chiesto agli ambasciatori di evitare eventi pubblici. Da giorni, il sistema Gps in Israele funziona male anche nelle aree più centrali, ed è possibile che anche questo rientri nella fase di preparazione all’attacco (interferenze controllate per creare difficoltà agli iraniani). Un clima che sta producendo ulteriore tensione, anche contro il governo, nei giorni scorsi accusato in enormi manifestazioni di piazza di non avere una linea chiara sulla guerra a Gaza e su come riportare a casa gli ostaggi che Hamas ancora detiene, dopo averli rapiti nel brutale attentato del 7 ottobre che ha dato il via a una stagione guerra — adesso sul punto di espandersi.
Il portavoce di Tsahal, le forze armate israeliane, ha dovuto cercare di rassicurare la popolazione (forse perché l’istituzione è quella che ancora gode di più fiducia) chiedendo di evitare comportamenti da guerra, scorte di cibo e contanti, ma limitarsi a restare informati su eventuali aggiornamenti. Oggi è il Quds Day, giorno con cui la Repubblica islamica celebra vicinanza alla causa palestinese. Ieri oltre tremila imbarcazioni in legno e barche a motore hanno preso parte a un’esercitazione navale delle unità marittime dei guerriglieri Basij a Bandar Abbas: manovre “a sostegno dell’Intifada palestinese”, dicono i media di Teheran, che hanno coinvolto anche le fazioni connesse ai Pasdaran in Iraq, Siria, Libano e Yemen.
Domenica sarà la ricorrenza dei sei mesi dall’attentato di Hamas, altra ricorrenza simbolica che potrebbe smuovere un’azione iraniana. Tuttavia va tenuto conto del quadro strategico: l’Iran potrebbe non essere interessato a prendersi il rischio delle conseguenze di una reazione dura contro Israele, che potrebbe produrre conseguenze regionali — e alterare i rapporti che la Repubblica islamica sta ricostruendo con altri attori come l’Araboa Saudita. C’è un precedente paragonabile: quando nel gennaio 2020 gli americani uccisero con un bombardamento a Baghdad il generale Qassem Soleimani, capo dell’unità d’élite Quds a cui apparteneva anche Zahedi, l’Iran rispose con dei bombardamenti contro basi irachene usate anche dagli Stati Uniti. Ma fu una gesto simbolico: per evitare danni ed escalation, gli americani furono avvisati in anticipo e sgomberarono i target. Un’azione scenografica con cui la teocrazia salvava la faccia senza correre successivi rischi.
La telefonata tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu si inserisce in questo articolato contesto. Se è vero, come emerso anche da quest’ultima conversazione (ma non è una novità) che Washington intende gestire al ribasso gli slanci israeliani — al punto che il presidente americano avrebbe chiesto un cessate il fuoco immediato, anche sull’onda dell’indignazione suscitata dal bombardamento al convoglio della ong World Central Kitchen — è altrettanto vero che gli Usa non si tireranno indietro nel caso Israele dovesse avere necessità di aiuto sotto attacco iraniano. Per gli Stati Uniti il dossier è sempre più complesso, con la necessità di gestire insieme la componente di legittimità della guerra israeliana a Gaza e la crisi umanitaria innescata dalla reazione feroce di Gerusalemme; la crisi regionale che potrebbe scivolare in un conflitto esteso (nell’Indo Mediterraneo, nel Sahel e nella regione del Golfo) che tornerebbe a coinvolgere i militari americani; i potenziali effetti su tutto ciò dell’apertura di un fronte più esplicito tra Iran e Israele, con coinvolgimento (diretto o indiretto?) di Cina e Russia. Tutto nell’anno in cui Biden cerca la riconferma elettorale.
Con un elemento ulteriore: il contesto tesissimo in Israele sarebbe perfetto per un’azione dello Stato islamico. L’IS non è strutturato adeguatamente nel Paese, ma se volesse dare una dimostrazione di rinnovata forza, l’opportunità c’è. C’è il panico generale, c’è una diatriba in corso tra due Paesi nemici, c’è un contesto internazionale attento, ci sono i palestinesi (e i musulmani in generale) che osservano, c’è la giornata al Quds e la ricorrenza imminente dei sei mesi di guerra. È un quadro perfetto per la propaganda baghdadista. Ma Israele è un Paese dove gli attentati e l’attecchimento dell’IS è stato sempre al minimo, sia per le capacità di sicurezza interne che la competizione con i grandi gruppi armati palestinesi. Il riverbero di queste azioni sarebbe certamente internazionale, un successo per la magnetizzazione di proseliti dall’Europa all’Asia.