Rachel Rizzo, non-resident senior fellow per l’Europe Center dell’Atlantic Council, sottolinea il ruolo-chiave per l’Italia nella cooperazione euroatlantica rispetto al continente africano e al Global South nel suo complesso in questo momento delicato per sviluppare “un rapporto simmetrico e di mutuo beneficio, abbandonando l’approccio paternalistico”
Quella del Global South sta emergendo sempre di più come una delle tematiche chiave per la politica internazionale del ventunesimo secolo. Anche per i suoi legami e le sue influenze con altri aspetti della vita politica globale. Ma quale ruolo deve giocare l’Italia in qualità di leader del G7? Formiche.net lo ha chiesto a Rachel Rizzo, non-resident senior fellow per lo Europe Center dell’Atlantic Council.
Si può parlare di “approccio euroatlantico” al Global South?
Negli Stati Uniti c’è la diffusa sensazione che sia necessario ricalibrare la nostra relazione con il Global South nella sua interezza, dall’America Latina all’Asia e all’Africa. E non è possibile portare avanti questa ricalibrazione senza coinvolgere i partner europei. Stati Uniti ed Europa hanno infatti costruito assieme i meccanismi finalizzati al rafforzamento e all’espansione della loro relationship con il continente africano, come nel caso dell’International Development Finance Corporation e del Global Gateway, meccanismi che però si sono rivelati non completamente adatti allo scopo per cui erano stati concepiti. Adesso è il momento di rinnovare gli sforzi in questo senso e di cooperare, evitando di rinchiudersi dentro un framework nazionale. E in questo senso, il Piano Mattei è importante.
All’interno di quale ottica?
Di molteplici ottiche. L’Italia non si percepisce solo come un attore-chiave nel bacino mediterraneo ma anche come una vera e propria porta d’ingresso verso il continente europeo, di cui essa stessa è però parte integrante. E lo fa in una serie di dimensioni diverse, da quella delle migrazioni a quella energetica, con l’impulso alla diversificazione che è cresciuto enormemente in seguito all’invasione russa dell’Ucraina del 2022. Non a caso, entrambe queste dimensioni sono due degli aspetti fondamentali su cui si struttura il Piano Mattei, a cui il governo ha dato un carattere sovranazionale mettendolo in cima all’agenda del G7 guidato da Roma. Ma allo stesso tempo ponendosi su un piano paritario con i Paesi africani. Come Stati Uniti ed Europa dobbiamo chiederci se i Paesi del Global South vogliono soltanto ricevere aiuti o vogliano piuttosto “scalare le catene di valore globale” e diventare economie moderne. Dobbiamo rivedere i nostri rapporti con l’Africa, e con i Paesi del Global South in generale, secondo la lente di un rapporto simmetrico e di “mutuo beneficio”, abbandonando l’approccio “paternalistico”.
Approccio comune, dunque, ai Paesi che compongono il “Sud Globale” come attore. E per quello che riguarda gli attori esterni e “rivali” del blocco occidentale, come Russia o Cina?
Fermiamoci un attimo a riflettere su cosa serve a questi due attori per garantire la propria power projection nel sistema internazionale: mentre la Russia proietta potere provocando caos, creando minacce ai confini dell’Europa e favorendo situazioni in cui potenze globali come gli Stati Uniti devono affrontare più minacce contemporaneamente, la Cina ha invece bisogno di stabilità internazionale, poiché il suo potere deriva dalla sua potenza economica che assume un potenziale molto maggiore in contesti pacifici. Questa differenza va sfruttata strategicamente dai partner atlantici.
L’Italia è uno dei Paesi principali situati lungo il Southern Flank dell’Alleanza Atlantica. Qual è il suo ruolo?
Durante l’amministrazione Biden ci si è concentrati soprattutto sul Mar Nero, ma col passare del tempo il ruolo del bacino Mediterraneo sta diventando oggetto di attenzioni sempre maggiori. E penso che il suo ruolo continui a crescere ancora di più, anche all’interno delle relazioni transatlantiche. E l’Italia si trova in una posizione speciale, posizione a cui abbiamo fatto riferimento poco fa, ovvero quella di “gateway” del continente europeo. È naturale che assuma un ruolo prioritario in questo contesto, anche nella dimensione securitaria.
Promuovendo così uno sganciamento degli Stati Uniti dalla sicurezza europea, tanto sul fianco Sud che su quello Est?
Purtroppo, la discussione sulla sicurezza europea è inficiata da un “comma 22”: c’è la credenza diffusa per cui più l’Europa diventa capace di provvedere alla propria sicurezza continentale, minore sarà il coinvolgimento americano nell’architettura di sicurezza europea in termini di truppe e non solo. In realtà è il contrario. Se si vuole avere una discussione più chiara ed aperta, l’aspetto transazionale deve comunque avere il sopravvento su quello emozionale, e non soltanto nel caso del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. È sbagliato esaminare le relazioni transatlantiche in base a chi vincerà le prossime elezioni presidenziali. È necessario seguire un approccio molto più strutturato, incentrato su come gli Stati Uniti pensano alla loro sicurezza, e quali siano le loro priorità geografiche sotto questo aspetto. Solo a quel punto una conversazione sulla forza relativa dell’Europa all’interno dell’Alleanza potrà essere fatta seriamente.