Una preadolescente di dieci anni, Clemence, figlia unica, in un interno borghese parigino, vive un momento difficile ma la gatta trovatella, Rroû, l’aiuterà nella sua crescita. Vita da gatto (2023) di Guillaume Maidatchevsky è un canto tra poesia e accennato dramma, che sarebbe piaciuto a Charlie Chaplin. La recensione di Eusebio Ciccotti
L’incipit del film, in un interno dai toni chiaro/scuro, è un omaggio, come poi negli esterni, al documentario. Seguiamo la nascita, ripresa in dettaglio, di alcuni gattini in una soffitta di un palazzo borghese parigino, tra scaffali, oggetti dismessi, casse, bauli. Passano delle settimane, ci dice la didascalia, e un gattino grigio, dal pelo soffice, si arrampica dappertutto, cadendo e scalando di nuovo, verso l’alto, verso la luce, ossia il lucernairo lasciato aperto. Ora è sugli inclinati noti tetti grigi parigini, di zinco, dove si può scivolare in basso, rimbalzando e finendo sui balconi.
Nel taglio successivo una bambina, Clémence, in un ampio interno borghese, sta accarezzando tra le mani il piccolo impaurito. In soggiorno i giovani genitori stanno discutendo civilmente, ma nessuno dei due cede. Lo spettatore capisce che la storia tra i due “non può andare avanti”. Non hanno tempo per la piccola che vuole comunicare loro qualcosa, “scusaci stiamo parlando”, la mamma. “Quando chiedo qualcosa non avete mai tempo per me”, replica la piccola. Poi il padre si accorge del gattino, e chiede alla figlia dove l’abbia trovato. “In soffitta. Vorrei tenerlo”. La mamma borbotta, il padre è più conciliante. Lo guarda e dice è femmina (poi sapremo che si è sbagliato: è maschio). Clémence lo chiama Rroû, La può tenere.
Vita da gatto (2023) di Guillaume Maidatchevsky, tratto dal romanzo Rroû di Maurice Genevoix, è un piccolo apologo con a tema un autentico viaggio di formazione. Clémence (la delicata e brava Capucine Sainson-Fabresse), dovrà affrontare la separazione dei genitori che non accetta, e troverà nella gatta e nella vicina della casa di campagna, Madeleine (una cangiante Corinne Masiero), scorbutica in superficie ma capace di donare attenzione con amore, i due esseri, un umano e un animale, che compenseranno il vuoto famigliare.
La sottile tensione psicologica che Clémence sta affrontando con coraggio subisce un ulteriore colpo dopo la scomparsa di Rroû nel fitto bosco. La ragazza va a cercarlo e rischia la vita, inseguita da un cinghiale, essendosi ella avvicinata inavvertitamente alla tana dell’animale in cui vi sono due cuccioli. Tornata a Parigi, scorata, senza Rroû, la piccola si sta isolando sempre più. Vive con la madre, il padre ha cambiato appartamento, Rroû non c’è più.
Un giorno arriva la telefonata di Corinne. Ha trovato Rroû, grazie al suo cane Rambo. Ma il gattino era congelato dal freddo, quasi morto. Il veterinario sta tentando di salvarlo. Mamma e figlia si precipitano in campagna, al capezzale di Rroû. Il gattino ha delle flebo attaccate. Passano i giorni. Alla fine riapre gli occhi. Vive. Clémence è felice. Ancora qualche giorno di convalescenza. Ormai Rroû cammina sicura sul davanzale della finestra, e guarda, oltre i vetri, la neve che si sta sciogliendo. È primavera. Rroû sente il richiamo della foresta, direbbe Jack London. Di là dal vetro ecco comparire la selvaggia gattina bianca, Câline, che Rroû aveva conosciuto nel bosco, con la quale aveva condiviso arrampicate, salti, lotte giocose, tra tronchi, rami e siepi. Di qua e di là dal trasparente confine, i due gattini si cercano, accarezzano il vetro con il corpo, miagolano, si amano. Clémence capisce che quando si cresce si deve seguire il proprio destino.
Il documentario naturalistico (le scene nei boschi sono di studiata finezza nel colore nel montaggio dei dettagli: Maidathevsky, biologo di formazione, ha dedicato alla natura alcuni documentari); l’accennato dramma famigliare; la scansione lirica nel ritrarre l’amicizia tra il Clémence e Rroû; una citazione da action film (il magistrale inseguimento del cinghiale ai danni di Clémence: grazie al digitale), sono i generi cinematografici che il regista intreccia continuamente.
Sul piano del linguaggio filmico il ricorso alla “camera alla Montessori” (ossia ad altezza di gatto; il “tatami-piano” introdotto dal cinema giapponese di Yasujiro Ozu) si rileva opzione decisiva, come le soggettive di Rroûu che sfuocano l’immagine con oggetto da vicino mentre sono a fuoco con oggetti lontani (come è appunto la vista del gatto).
Vita da gatto ci ricorda che gli animali sono pronti ad amarci, ma anche che ci possono lasciare per seguire il loro istinto. Al contrario degli umani che quando si/ci lasciano possono tornare sui loro passi, se si liberassero dall’orgoglio e dall’egoismo: “Per favore, tornate insieme!”, è l’ultima frase che dice Clémence, con la voce incrinata.