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Il papa, il libro di don Georg e la questione fraintesa. La riflessione di Cristiano

Emerge un racconto che cambia il racconto: non c’è un “bergoglismo” contrapposto ad un “ratzingerismo” e i molti lettori del libro autobiografico del pontefice, interessati probabilmente al “bergoglismo”, possono farsi un’idea diversa di Ratzinger, meno inserita in schematismi. La riflessione di Riccardo Cristiano

Si è molto discusso in questi giorni del fatto che Francesco ha scritto nel suo libro autobiografico della sua irritazione perché “il giorno del funerale (di papa Benedetto XVI) sia stato pubblicato un libro che parla male di me, raccontando cose che non sono vere, è molto triste… Ovviamente non mi tocca, nel senso che non mi condiziona. Ma mi è dispiaciuto si usasse Benedetto. Il libro è stato pubblicato il giorno del funerale, questa cosa l’ho vissuta come una mancanza di nobiltà e umanità”.

Molti hanno riferito questa “mancanza” (di nobiltà e umanità) all’autore del volume, io leggendo l’ho capita riferita alla pubblicazione in quel giorno, quindi a quella scelta. All’autore probabilmente è rimproverata, mi sembra, “la tristezza” dell’aver scritto cose che Francesco definisce non vere. Nel prosieguo del brano si legge che Benedetto XVI difese Francesco da quei cardinali che lo volevano “processare” per ciò che aveva detto sulle unioni civili. Riprendo una ricostruzione del racconto fatta dall’agenzia 9colonne: “Francesco rivela di avere saputo che alcuni cardinali andarono da Benedetto XVI per protestare sulle sue affermazioni relative alle unioni civili tra gay, nel 2020: ‘Ho detto che, siccome il matrimonio è un sacramento, non può essere amministrato a coppie omosessuali, ma in qualche modo bisognava dare qualche garanzia o protezione civile alla situazione di queste persone’. Successivamente Bergoglio ha un colloquio “molto bello” con Ratzinger: e scopre che con quei porporati, “sorpresi dalle mie parole sul matrimonio”, Ratzinger “è stato chiarissimo. Un giorno si sono presentati a casa sua per farmi praticamente un processo, e mi hanno accusato di promuovere il matrimonio omosessuale. Benedetto non si è agitato perché sapeva perfettamente quello che penso. Li ha ascoltati tutti, uno ad uno, li ha calmati e ha spiegato loro tutto”. Erano lì per “dire a Benedetto che stavo dicendo eresie. Lui li ha ascoltati e con molta elevatezza li ha aiutati a distinguere le cose… Ha detto loro: ‘Questa non è un’eresia’. Come mi ha difeso!… Sempre mi ha difeso”.

Dunque emerge un racconto che cambia il racconto: non c’è un “bergoglismo” contrapposto ad un “ratzingerismo” e i molti lettori del libro, interessati probabilmente al “bergoglismo”, possono farsi un’idea diversa di Ratzinger, meno inserita in schematismi da teste tonde contro teste a punta.

Ma perché quei cardinali ostili a Bergoglio si sarebbero rivolti al papa emerito? Per tirarlo nella “loro” contesa? Emerge così una discussione molto importante, o per meglio dire due discussioni. La prima, molto generale, è quella sull’ufficialità o “cerimoniosità” del linguaggio. Che linguaggio deve usare un papa? Il linguaggio ufficiale, quello cerimonioso e immerso nei paradigmi dell’ufficialità? Ci siamo abituati, e la Chiesa molto spesso mi è sembrata maestra al riguardo, come molti altri soggetti ovviamente. Proprio oggi, all’udienza del mercoledì, Bergoglio ha detto: “Le mezze verità, i discorsi sottili che vogliono raggirare il prossimo, le reticenze che occultano i veri propositi, non sono atteggiamenti consoni alla giustizia. L’uomo giusto è retto, semplice e schietto, non indossa maschere, si presente per quello che è, ha un parlare vero”. Qui Bergoglio a mio avviso va oltre la distinzione tra colloquiale e ufficiale e tocca il punto dell’esercizio del potere. Vanno nascosti i conflitti? O vanno affrontati nella loro realtà, per superarli, ma senza finzioni? Uno schema comodo, bergogliani contro ratzingeriani, può essere messo alla prova di fatti?

Il discorso allora si può allargare: a cosa servono tutte queste interviste del papa? Si potrebbe dire che sarebbe molto preferibile che il papa parlasse con le encicliche, i discorsi ufficiali, testi limati e conclusi, nei quali gli uffici badano alle compatibilità e alla completezza. Molto spesso questi discorsi sono molto lunghi e possono presentare in modo ovattato, da qualche parte, al lettore come me, cioè a quello che chiamiamo “uomo comune”, qualche sottile innovazione. È questa la pacchia dei “dotti”, o degli antichi chierici, che sanno trovare e capire quel che noi non sappiamo trovare e capire.

Per trovare uno strappo all’ufficialità nell’ufficiale si ricorre sempre alla Pacem in Terris, dove per la prima volta un papa ha parlato di diritti dell’uomo: e i diritti di Dio? Ma quelli sono testi che fanno la storia, e la storia è fatta di tante quotidianità. In queste quotidianità ci sono le interviste, nelle quali il papa si prende i suoi rischi, sovente senza la rete delle domande concordate. A cosa serve questo? A mio avviso serve a parlarci informalmente, amichevolmente, senza pretendere di fissare una “verità” conclusa, ufficiale, definita, come fece Giovanni XXIII con la Pace in Terris e come ha fatto Francesco con la (tardiva) revisione del Padre nostro, ma mettendoci a contatto con una storia o un disagio, che poi è l’insegnamento morale della quotidianità.

L’inquietudine più che la tradizione. L’inquietudine innova perché è viva, ma lo fa direi, “lentamente”: la tradizione per me, se non incontra un animo inquieto, blocca. Un “papa” inquieto può dirci “chi sono io per giudicare”, che poi vuol dire “ anche io sono un uomo”. Questo uomo però se non è inquieto rimarrà immobile, magari a biasimare tutti gli omosessuali per il solo fatto di esserlo. L’inquietudine dunque deve vivere nel quotidiano, con noi e per questo può avvicinarci al di là delle nostre etichette. L’inquietudine dunque è schietta, non si trova a suo agio nel “paludato”, per dir così. Inquieta pensare che non c’è stato un papa emerito contro un papa regnante? Questo fa bene, perché ci allontana dal pensiero rigido. E forse ci porta in un mare più ampio, dove i tradizionalisti non sono l’unica alterità rispetto all’unico “ blocco innovativo”.

Ricordo benissimo i giorni in cui in tante piazze italiane si affermava “il mio papa è quello, non quell’altro”. Criticare questo modo di rapportarsi alle diversità in nome di campi ideologici chiusi è poco misericordioso?

Torniamo così alle interviste “senza rete”. Personalmente posso dire che le numerose interviste di Scalfari a Bergoglio, che a volte mi sono sembrate interviste di Bergoglio a Scalfari, mi hanno fatto molto bene, mi hanno giovato, perché mi hanno reso inquieto visto che non sono fatto per l’ufficialità teologica, materia che non ho studiato, consentendomi di seguire il papa davanti a problematiche che riguardano anche noi che non siamo dotti e che abbiamo bisogno di un linguaggio diverso per accedere a ciò che non va riservato ai sapienti. Oggi capisco che nei miei schematismi troppo semplici, rigidi, da non dotto, potrebbe esserci caduto anche Ratzinger, perché tutti possiamo restare presi da rappresentazioni in bianco e nero.



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