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Tensioni a Tripoli e dimissioni dell’inviato Onu. La Libia sempre più nel caos

In Libia è saltato un altro inviato speciale dell’Onu. Le divisioni interne sono sempre più profonde, con attori non istituzionali che ormai controllano le dinamiche del Paese. Per le Nazioni Unite il percorso verso un potenziale nuovo governo di scopo è molto stretto, mentre attori esterni come la Russia guadagnano dal caos

Le recenti dimissioni di Abdoulaye Bathily dalla guida della Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), funzione che lo definisce inviato speciale dell’Onu per il Paese nordafricano, sono state accolte freddamente dalla Comunità internazionale. Il diplomatico senegalese ha lavorato fin dall’inizio del suo incarico – nel settembre del 2022 – aveva lavorato affinché le controparti africane iniziassero a intestarsi le dinamiche del dossier, la cui instabilità è un bubbone in mezzo al Mediterraneo da oltre un decennio. Ma l’evoluzione sempre più aggressiva delle tensioni tra milizie nella capitale ha prodotto irrimediabilmente l’uscita di scena.

“Non voleva essere lui il rappresentante dell’Onu nel momento in cui si riapriranno gli scontri”, dice una fonte libica che segnala come il livello di acredine tra due delle unità che garantiscono la sicurezza del primo ministro Abdelhamid Dabaiba è cresciuto a livelli che probabilmente sarà inevitabile qualche scaramuccia. La Rada Force di Abderraouf Kara e la Stabilization Support Agency di Abdel Ghani al-Kikli, detto “Gheniwa”, sono insoddisfatte e stanno lottando per dividersi i pochi bocconi di carne rimasti attorno all’osso del potere.

La questione è sostanziale: Dabaiba, da sempre ostaggio delle milizie (realtà totalmente discutibili) non riesce più a elargire gli emolumenti con cui si era garantito, tramite gli equilibri costruiti con le fazioni armate, la permanenza al potere – sia nella fasi in cui il suo ruolo era stato promosso da un processo sotto la guida onusiana, sia adesso che quell’incarico è di fatto scaduto per tempi e fallimento del mandato. La Banca centrale libica ha dato dei giri di chiave alle casse e il governo di Tripoli è a secco.

Kara e Gheniwa rappresentano il sostanziale fiasco della gestione post-Gheddafi del Paese. Il disordine è stato anche cavalcato da attori esterni, primi su tutti la Turchia – che con la protezione di Tripoli e del governo onusiano nella fase di guerra precedente si è garantita la sua sfera di influenza in Tripolitania – e la Russia. Mosca è ancora un attore chiave nella Cirenaica, dove non solo sostiene le imperiture ambizioni dell’ottuagenario generalissimo Khalifa Haftar, ma tramite lui si garantisce un hub per le attività dell’Africa Corps.

Stante la situazione, è molto complicato prevedere una via di uscita. La linea diplomatica condivisa da diversi attori internazionali è la costituzione di un nuovo governo di scopo, sull’impronta di quello di Dabaiba, ma che raccolga un consenso trasversale e tramite esso riesca a organizzare le agognate elezioni (che non si tengono da un decennio). Nell’immediato, la gestione di questa pratica toccherà a Stéphanie Koury, diplomatica americana, trasferita direttamente dal suo ufficio di New York a Tripoli come vice di Bathily e ora sostituita ad interim.

Koury, per conto statunitense, potrebbe spingere per quella soluzione dopo che al suo predecessore va il merito di aver costruito un terreno di incontro tra Alto Consiglio di Stato (tripolino) e la Camera dei rappresentanti (il parlamento autoesiliatosi in Cirenaica), che con il Consiglio presidenziale (che teoricamente guida il processo di compattazione dello stato per conto dell’Onu) avevano trovato una quadra per la creazione di un governo di scopo.

Bathily ha criticato la mancanza di progressi verso una transizione politica ordinata in Libia, dovuta alla riottosità e agli interessi personalistici dei vari attori libici, istituzionali e non. Nonostante i suoi sforzi per promuovere un dialogo tra i principali attori, i 18 mesi del suo mandato non hanno portato a sviluppi significativi. La relativa calma degli ultimi quattro anni non ha impedito agli attori locali di perseguire la propria agenda, alimentando tensioni politiche e scontri militari che potrebbero facilmente sfociare verso una deriva.

Bathily è stato l’ultimo di una serie di sei inviati che si sono succeduti alla guida dell’Unsmil. La durata media dei loro mandati è stata inferiore ai 20 mesi. Il predecessore di Bathily, lo slovacco Jan Kubis, ha ricoperto la carica per soli dieci mesi nel 2021. Prima di lui, la statunitense Stephanie Williams, si era dimessa dopo nove mesi per motivi personali e familiari, e il libanese Ghassan Salamé si era ritirato nel marzo 2020 per motivi di salute dopo due anni e mezzo di tentativi di dialogo. Il mandato più lungo è stato quello del primo inviato, il libanese Tarek Mitri, nominato nel 2011, seguito dallo spagnolo Bernardino Leon nel 2014 e dal tedesco Martin Kobler nel 2015.

La lotta per il controllo delle risorse, incluso il controllo della National Oil Company, ha sempre contribuito alla divisione del Paese e ostacolato la transizione politica. In questo contesto, il particolarismo degli attori locali è sostenuto dai player esterni, interessati a mantenere la crisi libica. Non sembra esserci alcuna prospettiva di un intervento diplomatico risolutivo delle Nazioni Unite nel breve e medio termine.


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